Il 25 aprile non è una storia vecchia di ottant’anni
Cosa impariamo sfogliando le cronache di allora (e di ora)
LIVORNO. La liberazione, ottant’anni fa esatti: giusto che tutta l’Italia la festeggi nello stesso giorno. È solo sul finire dell’aprile ’45 che gli alleati sfondano la linea del Po ed è il 25 aprile ‘45 che parte l’insurrezione dei partigiani nell’Alta Italia. Ma la liberazione dal nazifascismo, ciascuna città ha una data sua: a Livorno il 19 luglio ’44. Prima, era stata liberata Grosseto (15 giugno); dopo, era toccato a Firenze (11 agosto), Pisa (2 settembre), Lucca (5 settembre) e via elencando. Ben venga una data-simbolo unificata come mito fondativo della collettività civile: magari davvero si credeva di «poter essere vivo e felice / solo se lo erano anche gli altri», avrebbe detto Gaber.
È ugualmente vero, però, che il 25 aprile ’45 a Livorno e un po’ in tutta la Toscana, la vita è tornata ad avere una qualche parvenza di normalità in quel giorno di primavera in cui i giornali titolano “Milano insorge contro i nazifascisti” (l’ex Corriere della Sera). Lo faccio ficcando il naso nelle cronache: le piccole notizie locali non di rado riescono a raccontare qualcosa di utile a farsi un’idea perfino sotto la cappa della censura più buia.

Una delle foto-simbolo della guerra a Livorno: il Voltone gravemente danneggiato e la statua di uno sbigottito Fattori che guarda la scena
Sfogliando la cronaca nera
Salta fuori, ad esempio, che in quei giorni a Suvereto c’è il fattaccio di nera: un assessore comunista, ex esule, viene ammazzato a revolverate da un carabiniere in congedo forse non nostalgico ma chissà se un po’ destro. Probabile che sia una storia legata anche a dissidi e liti entro il piccolo mondo antico di un piccolo borgo, in cui gli odi si sedimentano nei decenni. Tempo un paio di giorni e, dopo un cadavere rinvenuto a Quercianella, un agricoltore ne scova un altro in zona Montenero: se il primo forse era morto per cause naturali (come il militare ventenne annegato in un fosso a Collesalvetti non si sa perché), questo ha la testa fracassata. Il movente? Una bega fra borsaneristi.
È un periodo in cui grandi e piccole ricchezze passano di mano non sappiamo neanche come. Magari perché le migliaia di case del centro completamente sgomberato da ogni abitante in pochissimi giorni (la “zona nera” dichiarata dai nazisti) si era trasformata nella cuccagna per i predoni, fossero i ladri o le stesse truppe tedesche. Magari perché le leggi razziste hanno spogliato dei patrimoni familiari un gran numero di famiglie ebraiche: ho il sospettaccio che chiunque fosse anche scampato dai lager avrebbe rischiato di essere fatto fuori da chi si era visto intestare fittiziamente industrie, negozi e immobili.
C’è dell’altro. Anche perché il differenziale che si poteva lucrare con la “borsa nera” era una tentazione spesso troppo forte in un mondo in cui migliaia di famiglie campavano di espedienti. E non c’erano solo i “borsaneristi”: nell’immediato dopoguerra il fatto che la logistica americana in Sud Europa fosse incentrata a Tombolo aveva collocato appena a nord di Livorno enormi depositi di beni, soprattutto cibo (e questo aveva trasformato migliaia di livornesi in ladri per motivi di necessità impellente e aveva calamitato qui una incredibile folla di “segnorine”, papponi, delinquentelli di paese e criminaloni di primo piano).

Il giornale livornese “Il Tirreno” annuncia l’insurrezione del 25 aprile ’45 nel Nord Italia
La casa: loro e noi
La distruzione di tutto il porto e di gran parte delle fabbriche ha tolto ogni reddito a un enorme numero di famiglie e c’è da inventarsi ogni giorno come svoltare la giornata. A mancare non è solo il lavoro ma anche la casa: basti pensare al fatto che in centro solo l’8% degli edifici era passato indenne dai bombardamenti (e grossomodo la metà degli appartamenti se allarghiamo lo sguardo anche alle periferie). Di più: teniamo conto che Livorno è sfollata quasi per intero, nove abitanti su dieci, e questo significa anche che molte delle poche case rimaste in piedi finiscono per essere occupate dal primo che capita e ha l’urgenza di avere un tetto. Per anni e anni la convivenza di famiglie differenti in un’unica casa non sarà rarissima a Livorno.
Ecco, se pensate che oggi viviamo noi in tempi terribilmente difficili e c’è da aver paurissima per la minaccia dei delinquenti, varrebbe la pena di sfogliare i giornali di allora. Vedreste che fra gli (inevitabili?) regolamenti di conti post-guerra, lo scenario della vita quotidiana di tutti doveva vedersela con: 1) incursioni di ladri a caccia di qualunque bottino; 2) furbacchioni che si spacciavano per polizia partigiana e intanto facevano sparire soldi e preziosi; 3) il difficile mantenimento dell’ordine pubblico (talvolta erano proprio i “poliziotti” alleati a creare guai anziché impedirli).
C’era l’impellenza urgente dei bisogni fondamentali, la grande diffusione di armi e un pervasivo tasso di straordinaria violenza dell’esistenza. Sul Tirreno – appena riaperto nel gennaio ’45 (con il cambiamento della testata perché Il Telegrafo dei Ciano era troppo compromesso con il fascismo) – troviamo traccia della bella signora, fidanzata di un alto ufficiale americano, che in quei giorni di aprile è ospitata in casa da una famiglia (un airbnb ante litteram…) vede sparire la scatola dei suoi splendidi gioielli. Tutti i giorni balza agli occhi il “bollettino furti”, e spesso è roba da poveracci così neorealistici: un pneumatico che sparisce, qualche vetro, le scarpe o una damigiana di vino.
Cosa ci raccontano gli elenchi
Si potrebbe allungare chissà quanto questo elenco: forse facendo caso anche agli omicidi. Come quello che proprio a fine aprile ’45, l’ho già segnalato, accade a Montenero al momento della spartizione del malloppo in una combriccola di “borsaneristi” e a uno fracassano la testa a colpi di pietra.
Ma c’è anche un poker di lista che si intravede nelle pieghe delle cronache. L’una riguarda il susseguirsi degli infortuni sul lavoro: segno che pur di contare su una busta paga si lavora in qualunque condizione, anche in contesti traballanti per via di bombardamenti alleati e mine naziste. L’altra ha a che fare con il gran numero di persone pizzicate mentre “allungano” con acqua il vino o il latte. La terza sono i casi in cui il cronista nota che tutti i santi giorni c’è un ragazzino che finisce all’ospedale: smettetela di giocare con i proiettili inesplosi, men che mai buttateli nel fuoco per vedere l’effetto che fa. Infine, la quarta elencata di nominativi: è la sfilza dei “chiedonsi notizie”, persone e militari di cui I familiari hanno perso le tracce e cercano qualcuno che li aiuti a rintracciarli.
A tal riguardo, va segnalato il curioso flash relativo a un campione di calcio: “Magnozzi è vivo”, dice un livornese al cronista in risposta alle voci che lo davano per morto e spiega che l’ex calciatore «è a Milano». Proprio Magnozzi è il protagonista di un singolare episodio con il gol del trionfo dell’Italia in casa dell’Ungheria: è l’11 maggio 1930 e il bomber livornese ruba la scena al Duce in visita a Livorno, oltretutto quel 5-0 in trasferta rompe le uova nel paniere a una partita che avrebbe dovuto essere una passerella di propaganda per il feeling fascistissimo fra Mussolini e l’ammiraglio Horthy…
La cronaca locale e la voglia di normalità
L’identikit della vita quotidiana ben lo scandisce un articolo di Pierluigi Tagiuri sul Tirreno, credo fosse il capocronista: manca l’acqua potabile. Il Cisternone si è salvato dalle bombe ma sono stati distrutti gli impianti che consentivano di pompare l’acqua nelle case. Già è insufficiente il quantitativo di acqua disponibile in condizioni normali, – questo il filo rosso del racconto – nel dopoguerra si riesce a “inventare” un qualche modo di pompare l’acqua verso la città ma le perdite per le tubature rotte e il dirottamento di parte della disponibilità a servizio delle forze armate lasciano di fatto ai livornesi solo 7mila metri cubi, e se pensiamo che prima della guerra già non erano abbastanza 21mila…
In quelle settimane le istituzioni locali riescono a riattivare almeno in parte l’erogazione del gas: si cominciava dalla zona della stazione. Nelle cronache emerge una comprensibile “fame di normalità” mentre è sotto gli occhi di tutti che non c’è niente di normale: tanto da Giorgio Caproni, grande poeta di origini livornesi, come pure da Mauro Nocchi, dirigente storico della sinistra labronica, ho ascoltato una immagine che colpisce forse più di ogni altra. I vetri rotti ovunque per le strade: i vetri delle finestre rotte dai bombardamenti o dai ladri. L’indizio di una provvisorietà persistente: una “normalità” che non diventa normale.
Leggo quest’insistenza sulla “normalità” nelle cronache che raccontano le “prime” al teatro Goldoni, la pubblicità dei ristoranti che segnalano di aver riaperto, il “tamburino” con i film al cinema: anche mentre attorno la città sembra in ginocchio. Intanto, l’Italia che rinasce si intuisce in quei “Bot” al 5 per cento che vengono pubblicizzati sulle pagine di giornale. E non solo lì: nelle cronache delle partitelle di calcio minore (esempio: il derby fra Ardenza e Montenero), forse più ancora che in quel che accade al Livorno che solo poco tempo prima si era visto soffiare lo scudetto da un gol di Valentino Mazzola al Bari a pochi istanti dalla fine.
La liberazione è una lunga storia…
Guardare alla quotidianità non svia da quel che il 25 aprile è stato in termini di riconquista della libertà e della democrazia: al contrario, ci aiuta a comprendere una delle categorie storiografiche più interessanti riguardo a questa pagina della nostra storia. L’hanno chiamata la “lunga liberazione”: qui il link a un interessante intervento della storica Chiara Fantozzi, è pubblicato su “Cn” rivista del Comune di Livorno e lo troviamo sul portale “Toscana Novecento”).
Bisogna capire che non è un semplice girar d’interruttore, non è qualcosa di lontanissimo anni luce. Invita a capire che c’è stata una Resistenza di partigiani combattenti in armi ed è stata fondamentale, ma c’è stata anche una diffusissima Resistenza civile, fatta soprattutto da donne, che ha dato ai partigiani e ai perseguitati l’acqua nella quale muoversi, indispensabile anch’essa per non lasciarli isolati. D’altronde, se pensate che la prima democrazia del mondo immagina di sottrare alla giustizia i propri provvedimenti: facendo sparire persone incarcerate così che il giudice non possa emettere sentenze; mettendo i principali studi legali nel mirino di ordini esecutivi che ne bloccano ogni attività, così che il diritto alla difesa sia ridotto se non sbriciolato; togliendo fondi alle università che continuano a voler formare in modo libero le nuove leve di studiosi (e di giudici)…
Capiamoci: quando pensiamo di essere in un mondo che minaccia casa nostra, bisognerebbe andarsi a rileggere le cronache locali della primavera ’45 per capire che forse dovremmo smetterla di piangerci addosso.

19 luglio ’44: la liberazione di Livorno dai nazifascisti, l’ingresso dei carri armati (Istoreco)
Invece ora la democrazia
Ma: no, non stiamo parlando di ottant’anni fa. A questo punto varrebbe la pena di dare uno sguardo al “Democracy index” messo a punto da The Economist, non da un club di anarchici impenitenti o comunisti trinariciuti. Spoiler: i livelli di democrazia sono in arretramento in qualsiasi parte del mappamondo. A cominciare da noi: lo standard di democrazia esistente in Italia ci mette al 38° posto nel mondo, peggio di Botswana, Belgio e Capo Verde, un po’ meglio di Sudafrica, India e Polonia. Comunque: “democrazia imperfetta”, così come gli Stati Uniti. Per dirla senza giri di parole: dal 2006 il nostro Paese non ha mai raggiunto lo standard da “piena democrazia”. Dunque c’entra fino a un certo punto il governo Meloni: eppure adesso con il governo di destra-centro l’Italia è al punto più basso degli ultimi 18 anni nel “Democracy index” dell’Economist. Meglio, il secondo peggior dato: il punto più basso l’aveva raggiunto nel 2019. Il migliore? Nel 2008 e nel triennio dal 2015 al 2017.
Ecco in questa tabella il generalizzato rattrappimento della democrazia nel mondo negli ultimi dieci anni: la cifra indica una sorta di “voto” in pagella per ciascun Paese.

Il “Democracy Index” di The Economist: è il termometro per misurare la “febbre” della democrazia qui e ora
Di “indici della democrazia” ne esistono molti altri. Per noi il risultato non cambia granché. Ad esempio, il “Freedom in the world” è messo nero su bianco da una Ong americana (ma finora con quattrini dal governo a stelle e strisce): ecco l’Italia al 42° posto. Per il V-Dem Institute, un pool di ricercatori svedesi, l’Italia se la cava un po’ meglio, comunque mica più del 28° posto.
Ecco perché gli auguri per il 25 aprile raccontano di noi qui, prima ancora che dei nostri padri, nonni e bisnonni.