Moby Prince: più vittime che in tutta la “strategia della tensione”
Il "teorena della palla di fuoco" è l'alibi per assolvere tutti
LIVORNO. Non c’è nessun’altra strage che abbia fatto così tanti morti: non la strage di Bologna, neanche l’aereo di Ustica. Benché a bordo del traghetto Livorno-Olbia, a un palmo dal porto di Livorno e a due dalla costa labronica di Antignano, 34 anni fa in un solo mercoledì notte sono morte tante persone quante nel susseguirsi delle stragi della “strategia della tensione”, anzi di più. Ma la più grande sciagura della marineria civile dal dopoguerra a oggi fa fatica a ritagliarsi uno spazio nella memoria collettiva del Paese: non fosse per l’instancabile tenacia dei familiari delle vittime, se ne sarebbe già perso il ricordo. In concreto: la sciagura del Moby Prince è un rebus senza soluzione ma per qualunque italiano medio non è uno dei “misteri della Repubblica” ma semplicemente una tragedia della sfortuna. Gente che ha avuto la jella di ritrovarsi sul traghetto sbagliato che al momento sbagliato è andato a sbattere contro la petroliera che stava nel posto sbagliato. Una tragedia, ma: come un terremoto, come un meteorite: cose che capitano. Eppure…

Luchino Chessa, figlio del comandante del Moby Prince
Un’altra commissione parlamentare, la terza
Lo dice con chiarezza il nuovo procuratore capo Maurizio Agnello di fronte alla commissione parlamentare d’inchiesta, la terza: non basta che sia “strage”, dev’essere provata in sede di giudizio l’intenzione “terroristica” o quantomeno deliberatamente omicida perché tutto non finisca inghiottito dalla prescrizione (una “strage” ma colposa, cioè senza intenzionalità, precipita nel nulla dopo vent’anni; l’omicidio colposo plurimo, anche plurimissimo come questo, «oggi in 15 anni, all’epoca dei fatti in dieci»). Con una conseguenza che nelle aule di giustizia conoscono bene: il teatrino della politica si accanisce sulla questione della separazione delle carriere, in realtà l’ingranaggio è in tilt per la mancanza di personale. Peggio che al pronto soccorso. Risultato: l’apparato giudiziario sbriga l’urgenza per com’è possibile fare, per le cose più complicate o arriva qualche escamotage dalle nuove tecno-scienze o la soluzione sarà un oblio malinconico e rassegnato.
Tanto per capirci, e lo ammette perfino Wikipedia: non si sa nemmeno il punto esatto della collisione, anche se – ormai è più una quasi certezza che un semplice sospetto – dev’essere in una zona dove la petroliera non doveva stare (ma forse c’era un andazzo tipo l’auto in doppia fila o in sosta vietata). Eppure…
L’incredibile teorema che nessuno dimostra
Eppure: c’è, ad esempio, quell’idea che potremmo chiamare lo strano “teorema della palla di fuoco”: a bordo del traghetto Livorno-Olbia si rovescia un tal oceano di petrolio da propagare un rogo paragonabile solo all’inferno. Impossibile salvarsi: quei 140 povericristi sono morti perché non avrebbe potuto salvarli nessuno, neanche se vi si fosse paracadutato l’intero corpo dei marines in dieci minuti dall’istante zero. Era una “palla di fuoco” e ha inghiottito tutto. Fine della storia. Se non fosse per la straordinaria abnegazione dei familiari delle vittime, il copione sarebbe già scritto.

Una delle manifestazioni che ogni anno, il 10 aprile, in occasione dell’anniversario della sciagura, attrversano la città di Livorno fino al Porto Mediceo
Eppure: se fosse davvero accaduto che il Moby Prince si fosse buttato dentro un vulcano, non si spiegherebbero:
- il mozzo Alessio Bertrand riesce a trovare il modo di salvarsi
- Bertrand dice anche di aver girato a bordo della nave, dopo la collisione, per cercare di salvarsi (dice di averlo fatto per «oltre un’ora e mezza dopo il mayday» e di esser stato accompagnato a lungo nella fuga dal marinaio Giovanni D’Antonio, rimasto «in vita per molto tempo»)
- Uno dei membri dell’equipaggio viene trovato in mare, ma affogato nel petrolio (anzi, nella nafta che almeno in teoria nessuno avrebbe dovuto avere)
- Da un rimorchiatore un marinaio arriva a bordo del Moby attorno alle 3 senza avere grandi protezioni («dall’estrema poppa del ponte lance del rimorchiatore abbiamo messo una scala d’alluminio e sono riuscito a salire a bordo»).
Questo, giusto per dire le prime quattro cose che saltano in mente. La quinta non è un ulteriore tassello del puzzle ma una constatazione: il “teorema della palla di fuoco” è l’alibi perfetto che toglie tutti dai guai.
Mancano accertamenti approfonditi sui corpi senza vita
La palla di fuoco è un postulato: sarà stato sicuramente così, e non c’è bisogno di dimostrarlo. Anche perché, appena vai a grattare qualcosa, è una ipotesi che comincia a zoppicare. Per via di un elemento, umanamente comprensibile ma devastante: bisognava celebrare un rito di passaggio che consentisse ai familiari di poter cominciare a piangere i propri cari e elaborare il lutto. Tradotto: le salme sono restituite alle famiglie e si celebrano i funerali prima che possano essere eseguite analisi approfondite sui corpi senza vita.
Difficile da credere ma è quanto emerge – a distanza di un quarto di secolo – quando i senatori della prima commissione d’inchiesta chiedono a due accademici, Gian Aristide Norelli e Elena Mazzeo, di riprendere in mano dall’inizio quest’aspetto. Dunque: in nome dell’esigenza fortissima di fare presto, ci si è limitati a dare un nome ai cadaveri, e in buona parte dei casi non è stato compiuto «alcun accertamento né autoptico né tossicologico». Questo significa: in genere, non sono stati fatti accertamenti per capire se vi fossero lesioni prima o dopo la morte; niente accertamenti «sulle vie respiratorie anche di soggetti relativamente integri»; poco o nulla sulla esatta posizione di ciascuna vittima.
Ma cosa ci sarà mai da sapere? Ancora quasi tutto
Del resto: ma non sono morti tutti quasi all’istante perché investiti da una “slavina di fuoco”? Cosa ci sarà mai da sapere? Una cosa: per quanto tempo sono sopravvissuti? Non è un dettaglio: se tutto finisce in pochi attimi nessuno poteva salvarli. Ma li hanno trovati raggruppati nel salone, al di là delle porte tagliafuoco, con bagagli e giubbotti salvagente: è la testimonianza dell’allora responsabile della polizia scientifica livornese, Giampietro Grosselle («molte persone, quasi tutte, avevano con sé le borse e le valigie»). Segno che l’allarme era stato dato. Perciò: il tempo di sopravvivenza si allunga a una mezz’oretta. Insufficiente a organizzare una operazione di soccorso: anche se al riparo nel salone, quanti avranno pensato che non siamo in alto mare, il porto di Livorno è lì davanti e ora ci verranno a prendere…

La carcassa del traghetto Moby Prince dopo il rogo
Non è stata la “palla di fuoco” a inghiottire tutti in un istante o in mezz’ora. Lo dice il perito Bardazza, indicando gli scatti che a bordo del Moby ridotto a una carcassa fumante mostrano indenni finanche i tovaglioli di carta. Idem per la sala macchine, indenne anche ai fumi del rogo.
Anziché la solita nebbia, l’alone biancastro degli antiincendio
Eppure: ogni volta salta fuori la nebbia. Anche questa è una grande mano di bianco che copre tutto. Coprirebbe, diciamo più esattamente. A volerla ascoltare una testimonianza c’è, è quella di Paolo Thermes e Roger Olivieri. Affidabili? Niente di meglio: in quel periodo sono in servizio all’Accademia navale come guardiamarina della Capitaneria e hanno compiti nella sezione della vela. Non saranno due uomini meteo ma per il mestiere che fanno dovrebbero essere abbastanza pratici di condizioni meteo: entrambi negano l’esistenza della nebbia. Ma soprattutto offrono una spiegazione extra che sarebbe assai utile: attorno alla petroliera c’era una sorta di nebulizzazione, come quella di pompe antiincendio. Cioè un alone biancastro in base al quale ipotizzarono che fossero stati «attivati i servizi antincendio, prima sull’Agip Abruzzo e poi sull’Agip Napoli».
In realtà, questo è solo l’assaggio: l’articolo dovrebbe proseguire oltre e oltre ancora. “Novemila giorni senza verità”: così, con tutta l’amarezza del caso, Elisabetta Arrighi, cronista che ha sempre seguito il caso per lunghissimi anni, ha sottotitolato il suo prezioso libro edito da Ets. Ecco, a questo punto i giorni sena verità ormai sono ben più di 12mila: quanto vorrei che fosse qui Angelo Chessa e che potesse davvero ascoltarci Loris Rispoli. Se non alziamo bandiera bianca è anche per loro.
Mauro Zucchelli
DALL’ARCHIVIO: L’appello del Pd: si crei un museo della memoria per questa tragedia