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L'ANALISI

Dietro il Trump bullo: noi e il flop dell’industria americana

Gli Usa hanno giganti web ma la loro manifattura è ai minimi: cosa si vede dalla Toscana

LIVORNO. Eccolo lì, l’uomo più potente del pianeta che sfotte chi crepa sotto le bombe: si tratti del video in cui la Gaza palestinese pare una macchietta di Las Vegas con dollari che piovono come la manna di fronte al “vitello d’oro” formato The Donald oppure, è cosa di ieri, il leader di un paese in guerra brutalmente insolentito in mondovisione dal comandante in capo dell’esercito forse più potente della storia e comunque in testa al “power index” che misura la potenza militare attuale. Questa doppia “fotografia” lascia interdetti, verrebbe da chiamare la caposala. Sbaglia, però, chi ritiene ci sia da fare i conti con un singolo impazzito: il vicepresidente J.D. Vance forse è stato pure peggio, Musk semplicemente lasciamo perdere. Ma anche: i grandi marchi tech-web che si sono genuflessi e il signor Amazon che ha messo a servizio perfino il “Washington Post” con il suo giornalismo che ha fatto epoca.

Beninteso, hanno il consenso dell’elettorato. Qui potrei aprire una parentesi. Dal punto di vista qualitativo: Trump ha trionfato alle elezioni perché ha conquistato gli stati in bilico; perché la legge elettorale Usa è parecchio particolare; perché ha sfondato in ceti che dovrebbero essere il blocco sociale di riferimento dei suoi avversari. Ok, ma occhio ai voti: il trionfo reale conservatore lo ebbe Reagan (su 538 grandi elettori se ne aggiudicò 498 nel 1980 e 525 nel 1984). Trump no: netta la sua affermazione, ma non fa cappotto: 304 grandi elettori su 538 nel primo round e 312 adesso; 77,3 milioni di voti a lui contro 75,0 per Kamala Harris (e Hillary Clinton addirittura ne ebbe più di lui). Lo scarto con Harris è un punto percentuale e mezzo, ma sono i democratici a suicidarsi politicamente: Trump sfonda e ottiene tre milioni di voti in più, i democratici perdono per strada un elettore su dodici (sei milioni in meno).

No, non basta dire che Trump è stato abile a far sembrare plebiscitario un consenso che non lo è. Politicamente, la sconfitta elettorale del “centrosinistra” americano si trasforma in una Waterloo, E qui c’è qualcos’altro: è la fine della globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta finora. L’uragano Trump-Musk ne è un indizio: insieme alle conseguenze del Covid sulle catene della fornitura e sulla delocalizzazione spinta, e forse agli effetti della enorme bolla di liquidità (creata dall’oceano di incentivi iniettati nel sistema per reggere allo sconquasso della pandemia) in tandem con la crescente complessità della finanza (che ora fa diventare prodotto perfino le morosità impacchettandole come “Npl” e “Utp”, a seconda del grado di possibilità di riavere quei crediti).

La traccia iniziale l’avevo notata sulle banchine di un porto come Livorno con il suo identikit di rapporti di sempre con gli Usa: noi mandiamo verso i porti americani i prodotti standard di un Paese manifatturiero a tradizione exportatrice: apparecchi meccanici, cibo e bevande, veicoli e prodotti chimici. Ma dagli Stati Uniti, cosa arriva in provincia di Livorno? Principalmente gas, più un terzo dei prodotti chimici che inviamo noi e un dodicesimo dei prodotti meccanici che inviamo noi a loro. Fra parentesi: già, il gas (lo compravamo dalla Russia per pochi spiccioli e ora l’abbiamo pagato dieci volte tanto agli americani). Fra parentesi bis: sembra l’identikit dell’export di un Paese appena più maturo industrialmente d’una modesta nazione di mezza tacca.

L’IMPORT-EXPORT SBILANCIATO

Lo dice Trump: noi compriamo poco da loro, i dati di Livorno e della Toscana dicono che è così. Lui la chiama ingiustizia, a dire il vero è un’altra cosa: è la drammatica perdita di competitività dell’industria americana. Gli Usa hanno bisogno di un bullo che facendo il gradasso ti costringa a comprare la merendina da lui: non è la più buona, semplicemente ti promette che ti mena perché lui è un grande e grosso. Ma ha i piedi d’argilla. Ripeto, la Toscana è una frontiera giusta per aprire gli occhi: siamo fra le prime tre regioni italiane per export negli Usa, meglio perfino del Nordest dei miracoli… (qui il link alla Gazzetta Marittima che parla dei possibili effetti dei dazi Usa sulla Toscana)

Invece che alla Quinta Avenue a New York o a Beacon Hill a Boston, alla collina di Hollywood dalle parti di Los Angeles, guardate alla “pancia” dell’America che racconta, ad esempio, Francesco Costa (Il Post), all’America profonda e strapaesana che non ha più nessun “sogno americano” come nel film “Cattive acque” o nei docu-film di Michael Moore su Flint o anche come in un giallo di Jeffery Deaver che, nato in un buco dell’Illinois, in “Tempo di caccia” fa muovere le scene in un paesotto devastato da industrie che ammorbano il fiume. Insomma: non l’America anche crudele e spietata ma con il cuore nelle metropoli scintillanti, semmai un mezzo sobborgo pakistano trapiantato nel nulla del Midwest, senza l’idea del bello che abbiamo introiettato noi da secoli, e ora privi anche dell’idea di farsi una casa monofamiliare e un bel pickup-elefante (qui il link a un video nel canale Youtube di Nova Lectio)

Il gioco è andato avanti finché è stato possibile: da ultimo anche gonfiando la capacità di acquisto del ceto medio (e pure dei ceti popolari). Grazie all’indebitamento contando sui futuri salari e soprattutto sull’incremento dei valori immobiliari, si portavano nel presente i futuri guadagni: tu avevi cento come reddito da lavoro ma ti rincorrevano per prestarti i soldi e ti rendevano capace di vivere come se tu guadagnassi il doppio. Poi tutto è crollato: non fossero gli States, sarebbe sembrata una Grecia qualsiasi piena di cartelli “vendesi”.

Ecco, lo ripeto: o fra ansia e popcorn ci mettiamo a vedere cosa accade di fronte all’impazzimento più folle ed estemporaneo o, se non vogliamo rimanere sulla superficie, guardiamo ai dazi per capirne qualcosa. Bisognerebbe compiere un’analisi un po’ più complicata di così, ma il casus belli dei dazi aiuta a ritrovare una bussola e a consentire di tirare il filo di quello che sembra solo bullismo e follia: e allora tutto quanto acquisisce una sua razionalità maligna. Occhio, una razionalità talmente disperata che forse era più consolante limitarsi a dire che Trump è matto e Musk basta guardarlo. No, non basta.

Drammatica perdita di competitività dell’industria americana, dicevo. Aggiungerei: perdita anche di consistenza. Mi riferisco alla desertificazione dell’industria nelle tante città medie: del resto, le multinazionali che avevamo a Livorno, da dove venivano? Da  Troy la Delphi, da Livonia la Trw, da Wayne la Trinseo: paesotti di rango locale, passatemi la semplificazione.

LA DESERTIFICAZIONE INDUSTRIALE, MA…

È la fine degli Usa? Attenzione a non prendere fischi per fiaschi. La desertificazione riguarda l’industria tradizionale. La classifica dei più grandi produttori di auto dice che di americano fra i primi dieci c’è rimasta solo la Ford ma è precipitata al settimo posto, la General Motors è da un pezzo il fantasma di sé stessa rispetto a quando era la numero uno al mondo, il più importante datore di lavoro in tutti gli Usa e la maggior realtà industriale come peso sul Pil americano. Anche la magnificata Tesla di Musk è stata sorpassata nei volumi globali dalla rivale cinese Byd, terza al mondo (più 41% nell’ultimo anno), mentre la casa di mr. Elon non è neanche nella top ten.

Se la cava (un po’) meglio quella parte di essa legata agli armamenti e soprattutto all’area chimica-farmaceutica. Ma soprattutto se la cavano: 1) i grandi giganti del web con la nuova economia in cui non si vendono prodotti bensì flussi e dati; 2) i grandi produttori di immaginario. E qui il riferimento classico potrebbe essere al cinema hollywoodiano, io invece richiamerei l’attenzione sul fatto che fra pochi anni la nostra tv sarà roba da vecchi ma chissà quali intrecci si avranno con la rete e comunque tenente presente che i nuovi “canali” sono i pacchetti di Disney+, Amazon Prime, Paramount+ e anche Dazn è sì inglese ma controllata dall’americana Access. Tutta roba che fa capitalizzazione stellare in borsa ma non dà da mangiare a milioni di tute blu. Meno (molto meno) spazio per le tute blu operaie a limitata istruzione ma con busta paga abbastanza sicura anche in un contesto dal licenziamento facile come gli Usa, molto più spazio a occupazione precarissima in una galassia di creatori di contenuti: una bella fetta dell’ex ceto medio sente sfaldarsi la terra sotto i piedi. Altro che Trump, voterebbe anche Belzebù.

La linea di demarcazione fra cosa funzione e cosa no la stabilisce un “paper” di McKinsey (“Building a more competitive US manufacturing sector”): da un lato, la grande industria matura in settori tradizionali come la metalmeccanica nel segno delle economie di scala; dall’altro, i settori più aperti all’innovazione.

Non sto scoprendo un nuovo pianeta sconosciuto: basterebbe sfogliare qualcosa che c’è già sotto gli occhi, e senza far troppa fatica. Intanto, l’interscambio commerciale: tutto insieme vale 92 miliardi di euro, ma dall’Italia parte non molto meno del triplo del valore delle merci che arrivano in senso inverso (67 miliardi noi, 25 loro). Dall’Italia verso gli Usa nel 2023: abbigliamento e pelle più 42,6% in rapporto al 2021, prodotti farmaceutici più 71%,prodotti della metallurgia più 77% ma la voce più rilevante sono gli oltre 12 miliardi di 12 miliardi di macchinari e apparecchiature (più 33%). Dagli Usa verso l’Italia, sempre nel 2023: la voce principale sono i prodotti estrattivi come il gas che, quasi quintuplicato, supera quota 7 miliardi, segue la farmaceutica (più 59,7%). Dati ufficiali, sia chiaro.

«Dal 2000 a oggi – diceva nel 2013 un report di “Limes”, rivista di geopolitica – la manifattura statunitense ha perso il 30% dei posti di lavoro e il 23% del valore aggiunto». Nei dieci anni successivi la deindustrializzazione è andata ancor più avanti e adesso l’industria vale grossomodo un dollaro su dieci nella “torta” della ricchezza prodotta. Come al solito, al centro c’è il costo del lavoro: un report del Boston Consulting Group citato da Limes segnala che all’alba della competizione con la Cina il salario d’un lavoratore cinese era «22 volte inferiore» a quello di un operaio americano. Quanto basta per spiegare come le famiglie operaie americane potessero sentirsi ceto medio o quasi.

LA FINANZA DETTA LEGGE ALLA MANIFATTURA

«Troppe aziende americane tendono a fondare le decisioni relative all’allocazione della produzione su criteri strettamente finanziari, senza mai tener conto del valore strategico potenziale delle unità produttive locali», rimarcava nel 2012 l’ “Harvard Business Review” (Gary Pisano e Willy Shih), segnalando che «le proposte di costruzione di nuove fabbriche vengono trattate come tutte le altre proposte di investimento e sono quindi assoggettate a rigide soglie di rendimento». In concreto: la produzione è vista come «un centro di costo puro e semplice», dunque è a quello che si guarda anziché agli effetti che la delocalizzazione può avere sul territorio o sulla capacità di innovazione dell’azienda.

Mica che alla Casa Bianca si siano addormentati dagli anni ’70 in poi, ma – afferma l’Ispi, centro studi di politica internazionale – le politiche miravamo a proteggere l’uno o l’altro settore (da ultimo semiconduttori, materiali avanzati, intelligenza artificiale e computer quantistici) sono riuscite tutt’al più a rallentare il declino, non a invertire la tendenza. Fino alla grande crisi del 2008, il problema finiva sotto il tappeto: piena occupazione, il settore manifatturiero perdeva vigore ma chi ne usciva ritrovava posto facilmente nel terziario, qualunque cosa fosse. Risultato: pur con un comparto manifatturiero via via più rattrappito, «le industrie americane si espandevano attraverso la delocalizzazione delle produzioni e lo sviluppo delle catene del valore globali». Miglioravano fatturato e valori ma «fu negligentemente trascurato» il fatto che «intere aree [degli Usa] finirono per subire una desertificazione economica e una conseguente disgregazione delle comunità che vi risiedevano». Come dire: la scommessa di far saltare il comunismo cinese tramite l’apertura ai commerci che avrebbe favorito l’arricchimento individuale si rivelò un boomerang e, al contrario, si tramutò nell’impoverimento delle disponibilità economiche di una buona parte della popolazione e di interi territori.

È questo che ha in mente chi tiene in pugno i fili della Casa Bianca e Trump, diciamo così, ha la missione di fare il bullo, cosa che gli riesce bene come sa chi ha fatto il casting. Ma con un “ma”: questo fa saltare l’idea che esista un Occidente accomunato dalla democrazia. Come si è sentito dire: il capitalismo ha per un secolo scelto di scommettere sulla democrazia, non è detto che lo faccia ancora. In effetti, è capitato solo a me di ascoltare imprenditori che rimpiangono regimi tipo semi-islamista turco o perfino comunista cinese pur di avere certezze su tempi, regole e interlocutori politico-amministrativi?

In realtà, il punto non è umiliare Zelensky: è mettere sotto scacco l’Europa, che fino a ieri per gli Usa era l’alleato numero uno al mondo. Nel mirino degli Usa è la Germania: neanche la passione di Musk per l’Afd è una bislacca intemperanza di un altro che è riuscito a costruirsi una narrazione formidabile. il gigante d’Europa è stato azzoppato senza far troppa fatica. Colpiti alcuni “garretti” fondamentali: il “diesel-gate” ha mandato in tilt la potentissima industria tedesca dell’auto; il boicottaggio del gas russo l’ha privata di energia a basso prezzo (anche con il sabotaggio del gasdotto baltico), solo per dirne un paio.

IL WELFARE DA FAR SPARIRE

Se esplode definitivamente la crisi dell’Europa, salta l’idea di welfare con l’integrazione di larghi strati di popolazione ai ranghi inferiori della plancia di comando: l’idea che possa esistere via servizi e sussidi la redistribuzione del 40% del reddito che lo Stato si prende tramite tasse. Negli Usa non è così: già la quota di redistribuzione è la metà e ciascuno se la cava mediante contratti privati (provate a fare però il paragone di quanti “scarti umani” sono letteralmente lasciati crepare per strada qui e quanti lì). Certo, c’è l’inefficienza dell’ingranaggio regolatorio e redistributorio pubblico ma fate la prova per vedere cosa davvero copre l’assicurazione sanitaria privata americana che avevate pagato…

Non è tutto: l’Unione Europea sarà malata di eccesso di regole ma è l’unico soggetto che prova a mettere un argine – nel segno dei diritti – allo strapotere dei grandi colossi social e web che vorrebbero libertà assoluta e magari addestrare le loro intelligenze artificiali grazie a miliardi di pagine prodotte da altri (e sgraffignate gratis nel più grande furto di copyright della storia).

Ecco, la scacchiera sul quale si gioca la partita a dama è questa. Il resto è distrazione di massa. Spoiler: ve l’immaginate cosa potrebbe accadere se, dopo che Trump fa il filo a Putin, qualche leader europeo facesse un mezzo giro di valzer dalle parti di Pechino?

Mauro Zucchelli

DALL’ARCHIVIO: qui il link all’articolo della Gazzetta in cui si dettaglia l’import-export fra gli Usa e il porto di Livorno e cosa si rischia con gli eventuali dazi annunciati da Trump

Pubblicato il
1 Marzo 2025
di MAURO ZUCCHELLI

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