Certo che me lo ricordo bene. Ero cronista di “bianca” (cioè non di “nera” come allora si definivano in cronaca) a La Nazione di Livorno e per settimane, quando Vera Durbè riuscì a mettere in moto la macchina del dragaggio, scrissi alati articoli su Modigliani, le sue sculture e la leggenda di dove le aveva gettate nei Fossi, deluso dai giudizi a dir poco oltraggiosi degli amici.
Era una storia troppo bella, fin dall’inizio: ma aveva, fin dall’inizio, qualche punto che mi aveva progressivamente messo in guardia. Ricordavo infatti che da bambino, dopo la fine della guerra, avevo visto dragare i Fossi dalle abbondanti macerie. E parlando con chi manovrare la benna messa di nuovo all’opera, avevo registrato il suo scetticismo, perché era lo stesso gruista di fine guerra. Tutti vogliamo credere in ciò che più ci piacerebbe, ma io sono sempre stato un bastian contrario: spesso a torto, lo riconosco. Però cominciai a stare con le orecchie tese. Cresceva anche lo scetticismo del popolo: tanto che la benna ripescò nei primi giorni una vecchia bici e una carriola con su scritto a pennarello: bici (o carriola) di Modigliani. Sulla spalletta dei Fossi c’era chi passava ore ghignando.
Quando furono ripescate e ripulite le tre teste si scatenò il mondo, la storia la sapete o la potete rileggere sul web. Anch’io mi stavo convincendo quando una cara amica, che frequentava il mondo degli artisti locali, mi fischiò – sia pure con cento sottintesi – di stare attento, molto attento. Tornarono i vecchi dubbi; lo scrissi. Forse con troppo scetticismo. Da Firenze mi tolsero il servizio, sculacciandomi, e affidandolo al più anziano e pacato collega della redazione livornese Corbucci.
Quando gli autori della beffa saltarono fuori, io stavo leccandomi la ferita ma vennero i grandi inviati e la mia storia, giornalisticamente parlando, finì così: beffato dalla beffa.
Antonio Fulvi