ROMA – Su “GreenMe” un servizio giornalistico molto letto sottolinea come “Fino agli anni ’70, le aziende di tutto il mondo utilizzavano l’oceano come discarica per i rifiuti generati dalle loro produzioni. E ora? Si tratta di una pratica che in qualche modo è stata regolamentata, ma che comunque rimane più attuale che mai (e illecita), con effetti più che devastanti”.
Si tratta del dumping oceanico che quasi nessuno conosce: altro non è che lo smaltimento deliberato di rifiuti pericolosi in mare: da navi, ma anche da aerei, piattaforme e strutture apposite più o meno mascherate.
L’etimologia è semplice: “to dump” in inglese significa scaricare e se commercialmente “dumping” indica la pratica per cui le grandi imprese introducono nel mercato europeo dei prodotti a un prezzo molto inferiore rispetto a quello di mercato (grazie alla presenza di sussidi statali alle imprese nel Paese di origine), dal punto di vista ambientale “dumping” significa tutt’altro.
Si tratta, ovvio, di materiale inquinato da metalli pesanti come cadmio, mercurio e cromo, nonché da idrocarburi come oli pesanti, sostanze come fosforo e azoto e organoclorurati provenienti da pesticidi.
Inoltre, anche i rifiuti radioattivi delle centrali nucleari di tutto il mondo finiscono nei nostri oceani. Esistono prove sempre più evidenti che sia gli elementi radioattivi a vita breve che quelli a vita lunga possono essere assorbiti dal fitoplancton, dallo zooplancton, dalle alghe e da altre forme di vita marina e quindi essere trasmessi lungo la catena alimentare ai pesci, ai mammiferi marini e agli esseri umani.
Altri materiali smaltiti nell’oceano includono resti umani da seppellire in mare, navi, moli di ghiaccio artificiali in Antartide e scarti di pesce.
Provvedimenti? Il controllo satellitare, il monitoraggio dei porti da cui partono i materiali pericolosi, ma più che altro la volontà degli Stati di difendere il mare.