Darsena Europa, il mistero buffo della fretta che rallenta tutto
Invece di accelerare l’iter sul terminal container, gli equivoci sui piazzali da usare subito
LIVORNO. È curioso: il numero uno dell’Authority livornese, Luciano Guerrieri, annuncia che a fine aprile iniziano i lavori per le opere a mare della Darsena Europa. E tutto il discorso pubblico che si ascolta non bada a premere l’acceleratore per la selezione dell’investitore nel terminal: no, ecco che invece si sposta il baricentro dell’attenzione sull’utilizzo delle aree nel frattempo. Come se ci si attendesse che la procedura per arrivare all’aggiudicazione possa essere una lungagnata: invece che più sprint, si comincia a pensare ad altro.
È questa un’infrastruttura che vede la parte pubblica mettere sul tavolo mezzo miliardo di euro (e i privati forse un po’ meno ma comunque centinaia di milioni), il problema fosse solo quello di riuscire a far fruttare una parte dei piazzali il prima possibile. Sacrosanto: ma, a fronte di qualcosa che mette in moto un giro non lontano dal miliardo di euro, parliamo forse di 350-500mila euro all’anno. Alla fine, sarebbe in gioco lo 0,1%, più probabilmente meno. Ben venga anche quello, ma già il solo rincaro dei prezzi del primo appalto è quasi dieci volte tanto, eppure…

Palazzo Rosciano a Livorno, quartier generale dell’Autorità di Sistema Portuale del mar Tirreno Settentrionale
I soldi extra non sono certo un male per le casse pubbliche. Il punto è un altro: fin qui si è ragionato dei primi due piazzali disponibili. Ma a chi darli? Mediante una gara? Se fosse tramite gara, ecco che si arriverebbe al paradosso: anziché accelerare la procedura di comparazione (o di cosa altro volete) per selezionare l’investitore per la Darsena Europa, ci si immagina che tutto il rebus sia sterzare le energie dell’Authority per una procedura relativa a una assegnazione momentanea di una parte di qualcosa.
Già, momentanea: ma quanto momentanea? Cioè: per quanto tempo? Fino all’individuazione dei privati che investiranno nella Darsena Europa: un po’ nel vago, no? Già ai tempi di Gallanti ha portato sfiga cosmica lasciare nell’indeterminatezza le tempistiche: tutte le gare andate deserte perché il passaggio del testimone fra pubblico e privato non aveva una data. Si sapeva che solo era in successione, quando l’uno finiva iniziava l’altro. Sicché le banche chiedevano: in che mese e anno? Risposta: non possiamo prevederlo. Risultato: tutto rimasto al palo. A meno che non si pensi: ok, ma c’è un operatore che è insediato lì accanto. Bisognerebbe approfondire se il criterio della vicinanza possa contare dal punto di vista giuridico. Ma in quei paraggi ci sono anche altri terminal, c’è la stazione Fs di Livorno Darsena, c’è la Torre del Marzocco e forse la più vicina di tutti è la Darsena Petroli.
Dunque, diciamo che dribblare una procedura bis potrebbe essere una tentazione ma non una grande idea: prima dell’arrivo di Guerrieri, in porto c’era un fuoco incrociato di una cinquantina di ricorsi al Tar. Figuriamoci cosa accadrebbe a qualunque delibera di assegnazione che nascesse da un conflitto. Conseguenza facile da prevedere: non si accelera sul completamento della Darsena, ci si impantana fra sospensive, giudizi di merito e appelli al Consiglio di Stato pure per la corsia che dovrebbe sveltire l’utilizzo operativo della nuova espansione a mare.

Il numero uno dell’Authority labronica Luciano Guerrieri e il viceministro Edoardo Rixi durante un sopralluogo al cantiere della prima fase della Darsena Europa
Ma non è neanche questo il cuore della storia. Il punto è che fin qui si è parlato di «piazzali». Anzi, di un paio di lotti dei piazzali in via di completamento là dove si consolidano i sedimenti delle ex vasche di colmata. È qui che casca l’asino: “piazzale” sembra designare una sorta di superficie piana indistinta. È così all’inizio, ma dopo no: il piazzale di un parcheggio di semirimorchi e camion che con le “autostrade del mare” vengono spediti via mare, dico in astratto facendo un esempio, non è il piazzale di un terminal contenitori, soprattutto se di ultima generazione. Sto parlando del terminal ferroviario, sto parlando dell’impiantistica del sottosuolo, sto parlando del sistema di geolocalizzazione che “chiama per nome” ciascun container, sto parlando del polo del freddo e dell’area doganale. Sto parlando anche di quel che abbiamo sotto le suole delle scarpe: un terminal da “autostrade del mare” ha bisogno di reggere un peso che non è quello dei container impilati magari fino al quinto o al sesto tiro.
Balza agli occhi che parliamo di “piazzale” ma in realtà sono due cose differenti: e se pensiamo che, secondo stime non ufficiali colte un po’ al volo, anche solo per una prima sistemata il piazzale “provvisorio” avrebbe bisogno di lavori per più di tre milioni di euro, chissà quanto occorrerebbe poi a chi prende il piazzale realizzato per l’uso provvisorio, lo smonta o ne demolisce pezzi, lo rifà daccapo secondo le esigenze delle merci containerizzate.
Benissimo, ma il problema è ancora un po’ più in là. Non soltanto si tratta di due tipi di piazzali differenti sullo stesso spazio. Dunque: se lo spazio è occupato dall’attività operativa dell’assegnatario “provvisorio”, dov’è che può lavorare l’investitore della Darsena Europa per costruirsi il terminal? Teniamo presente che un terminal contenitori ha bisogno di installare grandi gru a ciglio banchina, perciò il banchinamento non è solo il confine fra terra e acqua, è un punto delicatissimo in cui enormi pesi si scaricano al suolo.

Il nuovo identikit della Darsena Europa che verrà, secondo il progetto
Eppure la soluzione sarebbe proprio facile: accelerare la gara per l’individuazione dell’investitore che si farà carico di costruire il terminal con i propri quattrini in cambio di una concessione per tot anni. Ovviamente da pagare da subito.
Sulla maxi-Darsena si è fatta avanti la candidatura del gruppo Msc del comandante Gianluigi Aponte, la prima flotta al mondo nel settore contenitori, insieme al gruppo Neri e al Lorenzini Terminal (famiglie Lorenzini e Grifoni, già adesso socie di Msc sulla Sponda Est): è a distanza di 35 giorni che l’Authority ha risposto con una ordinanza con cui è stata disposta la pubblicazione on-line della documentazione richiesta. Una volta che parta davvero la gara o la comparazione – non c’è da inventare nulla, risulta che sia tutto previsto dalle norme – e si arrivasse in fondo, sarebbe l’assegnatario a pagare il canone e dunque il bene sarebbe messo a frutto, le casse statali comincerebbero a introitare. Pagherebbe da subito, come detto: non da quando il terminal sarà operativo. È così che funziona: e sarebbe un incentivo in più, quello sì, per far attivare anche per lotti funzionali il nuovo terminal contenitori con fondali a meno 16 metri. Detto per inciso, quindi in grado non di fare miracoli ma perlomeno di rendere possibile i collegamenti con la Cina e più complessivamente con l’Indo-Pacifico: si svincolerebbe Livorno dal legame quasi esclusivo con gli Stati Uniti che in questo momento rischia di essere un fattore di fragilità.
Lasciamo perdere la solita nomea per cui nel nostro Paese non c’è niente di definitivo quanto il “provvisorio”. È lo zucchero nel motore della procedura relativa al completamento della Darsena Europa: a quel punto non conviene più a nessuno farla davvero. Basta cristallizzare il cosidddetto “provvisorio”, e il gioco è fatto: non c’è nemmeno da restituire al sistema ferroviario in uscita dal porto livornese i 300 milioni di euro che erano stati assegnati nella legislatura precedente e che successivamente sono stati dirottati altrove, ovviamente per il Sommo Bene di noi tutti.
A tirare i fili della strategia del governo sulla portualità made in Italy non pensate sia il ministro Matteo Salvini, semmai il suo viceministro Edoardo Rixi, leghista pure lui. A differenza del grande capo del Carroccio che ostenta indifferenza per le cose di mare e di porto, Rixi ha mostrato – anche durante la recente visita pastorale a Livorno con tanto di sopralluogo al cantiere della Darsena Europa – che è un tipo che studia i dossier, in grado di rivolgere al presidente dell’Authority e agli ingegneri domande e questioni con una certa qual padronanza e precisione. Come dire: non è la solita figura paracadutata da Roma che fa il compitino girando la “minestra” di quelle quattro cose, talvolta anche solo due.
Proprio per questo l’intervista del viceministro nell’ottobre scorso a “Shipping Italy” è rimbalzata come una cannonata: a distanza di appena tre settimane dal decisivo voto regionale in Liguria (dopo il ciclone giudiziario che aveva decapitato porto e Regione), in quell’occasione l’unica sottolineatura con nome e cognome è quella che riguarda la Darsena Europa. Giusto per dire che bisogna fermarsi ai primi piazzali e chiuderla lì invece che completarla. Il motivo? Ora mancano i piazzali (e dunque usiamo quelli “provvisori”) ma, «un domani che entreranno in servizio altri piazzali in altri porti», si corre il pericolo che la nuova infrastruttura livornese «poi rimanga vuota». La strategia è già scritta: la maxi-Darsena resti un bel sogno anche se c’è chi è pronto a metterci i soldi per farla.
In realtà, è una suggestione che il più accreditato stratega dei porti nel governo di destra fa alla “sua” Genova e alla “sua” Liguria: non è un segreto che Genova soffra la concorrenza di Livorno. Ma forse anche in questa storia della stagnazione nel traffico container bisogna cominciare a guardarci dentro: è vero che negli ultimi anni dello scorso decennio la movimentazione complessiva di contenitori è rimasta inchiodata a 10 milioni 700mila, poco sotto o poco sopra. Ma dal 2021 in poi no: 11 milioni 359mila teu il primo anno, oltre 200mila in più nel secondo, si ritorna indietro nel 2023 (ma pur sempre 700mila teu più dello standard del decennio precedente), fino a sfiorare i 12 milioni di teu nel 2024. Pesa l’andamento di Gioia Tauro, ma soprattutto si delinea un aspetto: da lunghissimo tempo gli strateghi della portualità insistono sullo schema territoriale delle “ascelle della penisola” con i porti-chiave del Bel Paese incentrati su Genova e su Trieste. L’ultima annata dice qualcosa di differente: si affloscia tutto l’Adriatico (non c’è un porto con il segno “più” e sull’intera sponda balcanica quasi non c’è generazione di traffico); cresce tutto il Tirreno. Eccetto Trapani. E Livorno.
E pensare che su Livorno hanno messo gli occhi i giganti delle flotte: da un lato, in Darsena Toscana la compagnia napoletana Grimaldi ha acquistato il terminal Tdt dai fondi internazionali; dall’altro, la Darsena Europa ha riscosso l’interesse di Msc, la prima flotta di portacontainer al mondo, insieme agli imprenditori livornesi Neri e Lorenzini. Posto che Gioia Tauro fa corsa a sé (in quanto è porto di trasbordo), al netto del petrolio Livorno è il secondo porto d’Italia per tonnellaggio di merce movimentata, è il primo per le “autostrade del mare”, al quarto per teu del traffico contenitori, all’ottavo per passeggeri imbarcati. Come porto Livorno è una delle primissime realtà del Paese, quando c’è da distribuire risorse e tonnellate vale come una “metropoli”: diciamo che, come peso e rilevanza, dovremmo contare come una “Napoli” o una “Torino”. E all’improvviso come porto ci ritroviamo a giocare in un “campionato” che ha due operatori di primissimo rango come fossero il Real e il Barcellona, il Liverpool e il Manchester City. Vediamo se c’è modo perché entrambi abbiano spazio o se si ripeterà il copione di anni addietro quando Livorno è diventata il campo di battaglia nella guerra fra i due big dei traghetti: poi abbiamo visto con quali strascichi infiniti si è conclusa.
Mauro Zucchelli