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DALL'ASIA ALL'AFRICA

L’espansionismo cinese in mare fra eco-danni e profitti boom

Nello “Shang Shu”, o “Libro dei Documenti”, o “Documenti affidabili”, la base della filosofia cinese antica, l’equilibrio fra i cinque elementi della natura costituiva la base di qualsiasi riflessione sull’uomo e sull’ambiente. E l’acqua rivestiva un valore fondamentale per garantire i cicli della natura. Guardando a come la Cina contemporanea si relaziona con l’immensa ma finita risorsa costituita dal mare, si può ben dire che quegli insegnamenti siano ormai lettera morta: roba da matusalemme aggrappati a un mondo che non c’è più.

La corsa cinese verso il controllo dei mari, almeno di quelli asiatici, africani e sudamericani, ha certificato la presenza di danni ambientali notevoli e irreparabili, a fronte di guadagni crescenti. Il primo caso è quello della parte meridionale del Mar della Cina. Qui, la disputa per il controllo dell’arcipelago delle Spratly Islands ha portato alla costruzione di infrastrutture artificiali, un porto e basi militari da parte di Pechino, con tanto di dragaggio dei fondali che ha distrutto in modo definitivo l’ambiente marittimo.

Le Spratly Islands rappresentano un piccolo arcipelago fra Filippine, Malesia, Vietnam e Cina, sono in larga parte disabitate, ma offrono una ricchezza ittica notevole, e ultimamente sono stati scoperti anche giacimenti di petrolio e gas che fanno gola a tutti i paesi che vi si affacciano. Senza contare l’importanza strategica, in termini logistici e di controllo dei traffici marittimi, di questo arcipelago.

La Cina non si è fatta certo pregare, prendendone il controllo. In tutta risposta, le Filippine hanno chiesto un arbitrato internazionale e, nel 2016, le Nazioni Unite (mediante l’ “Unclos”, United Nations Convention on the Law of the Sea) hanno deliberato in larga parte a favore di Manila. L’arbitrato, però, non ha dissuaso Pechino, che anzi ha incrementato la sua presenza nell’arcipelago. Se, nel 2014, la Cina aveva inviato presso Subi Reef (uno degli atolli fondamentali dell’arcipelago) circa 200 militari, negli anni successivi vi ha installato una base militare e costruito un porto con una pista di atterraggio di circa 3mila metri. Operazioni di grande impatto ambientale che, secondo il report pubblicato nel gennaio del 2025 da Asia Maritime Transparency Initiative (Amti), basato su immagini satellitari, sarebbero responsabili del 65% degli 8mila acri di barriera corallina danneggiata.

Le draghe a taglio avrebbero letteralmente tagliato la barriera corallina, mentre anche l’intensa attività ittica avrebbe dato un contributo decisivo al peggioramento dell’ecosistema marittimo. Le navi cinesi che pescano vongole giganti avrebbero danneggiato 66 chilometri quadrati di barriera corallina. I loro gusci vengono intagliati e venduti come gioielli o statue in Cina, con ricavi elevatissimi per chi commercializza questi prodotti. Ormai, l’overfishing che si è verificato nel Mar della Cina sin dagli anni Sessanta ha ridotto del 90% la biomassa ittica locale, costringendo Pechino a guardare altrove. E questo altrove è stato, in primo luogo, l’Africa, oltre alla scommessa sull’acquacoltura. Solo per dare un’idea: nel 1985 vi erano in Cina 13 vascelli capaci di effettuare pesca in alto mare; oggi ve ne sono 17mila, contro i circa 300 degli Stati Uniti.

La Cina è il primo paese al mondo (dal 1989) per tonnellate di pesce catturato. Nel 2021 Pechino è riuscita a pescare (ancora secondo dati ufficiali di Statista, evidentemente sottostimati) 13,14 milioni di tonnellate metriche di risorse ittiche, lasciandosi alle spalle l’Indonesia, con 7,2. Nel 2022, il 40% di tutte le risorse ittiche mondiali era stato catturato da imbarcazioni battenti bandiera cinese o facenti riferimento alla Cina, che consuma circa un terzo del pescato a livello mondiale, di cui il 40% (a parte il pesce derivante da acquacoltura) importato.

Il continente africano – soprattutto la sua parte occidentale e centrale – è stato per decenni lo spazio marittimo preferenziale per soddisfare il fabbisogno interno ittico della Cina. Geenpeace ha calcolato che sono circa 400 i pescherecci cinesi presenti nell’area che, secondo stime (molto prudenziali) del Ministero della Pesca cinese rastrellano un valore di circa 400 milioni di euro annui da tale attività. Considerando, naturalmente, soltanto i peschereggi autorizzati dalle autorità dei vari stati africani.

Secondo un recente report della Hoover Institution, della Stanford University, dal 40% al 60% dell’attività ittica svolta nelle acque di Camerun, Repubblica del Congo, Gabon e Nigeria è stata realizzata da pescherecci cinesi illegali nel Golfo di Guinea. Ciò è stato possibile grazie alla debolissima capacità di controllo marittimo da parte dei suddetti paesi.

I costi economici sono elevatissimi: il commercio marittimo illegale costa all’Africa occidentale quasi 1,95 miliardi di dollari lungo la catena del valore del pesce e 593 milioni di dollari all’anno di reddito familiare. Circa 300mila piccoli pescatori artigianali africani hanno perso il loro lavoro in Africa Occidentale, a causa della crescente scarsità di materia prima da pescare, costringendoli a spingersi in alto mare, dove le loro imbarcazioni non hanno la capacità di arrivare.

Soltanto nel 2021 la Nigeria avrebbe perso 70 milioni di dollari a causa di tale attività illecita. L’Unione Europea, sempre nel 2021, ha ammonito il Camerun per l’assenza di controllo delle proprie acque, dove appunto i pescherecci cinesi fanno il bello e il cattivo tempo. Non solo: ma proprio il Camerun è stato accusato di connivenza con la Cina per la devastazione del Golfo di Guinea, offrendo “flag of convenience”, ossia una “bandiera di comodo”. Tradotto: vi sono pescherecci che ufficialmente battono bandiera del Camerun, ma che in realtà sono pagati dalla Cina per andare in alto mare, pescare quante più risorse ittiche possibile, per poi consegnare la merce a società cinesi.

Al danno economico deve sommarsi quello ambientale: in Ghana, per esempio, la cattura di piccoli pesci pelagici è diminuita, fra il 1993 e il 2019, del 59%, mentre la Sardinella aurita, una piccola specie molto apprezzata, ha fatto registrare una diminuzione, in termini di cattura, dalle 119mila alle 11.834 tonnellate nello stesso periodo di tempo. Si è clacolato che circa il 70% di pescato di calamari risulti dall’attività di imbarcazioni cinesi, mentre la drastica diminuzione della popolazione mondiale degli squali deve essere spiegata attraverso il florido commercio delle loro pinne, che generalmente passa attraverso Hong Kong, per poi approdare alla Cina continentale. Soltanto nel 2020 sono state sequestrate dalle autorità di Hong Kong 26 tonnellate di pinne di squalo contrabbandate, ricavate da 38.500 animali.

Ma non vi sono soltanto specie a rischio estinzione a livello mondiale, o concentrate nei mari africani. La totoaba (famiglia degli scienidi), che si trova nel Mar di Cortez, in Messico, e di cui è proibita la cattura dal 1975, è in pericolo di estinzione a causa della domanda cinese per la sua vescica natatoria, necessaria per le pratiche di medicina tradizionale. La vescica di un singolo pesce può arrivare a essere venduta per 100mila dollari in Cina. Stesso discorso vale per le focene (piccoli cetacei) della California, che si stanno rapidamente avvicinando all’estinzione. Secondo l’International Union for Conservation of Nature, ne sarebbero rimasti non più di una ventina di esemplari in circolazione.

Appare ormai chiaro che gli strumenti sino a oggi approvati da entità internazionali, quali le Nazioni Unite o l’Unione Europea, sembrano incapaci di fermare la corsa alle risorse ittiche di vari paesi, di cui la Cina rapprresenta il caso più eclatante. La Convenzione sulla legge dei mari è stata approvata nel lontano 1982 dalle Nazioni Unite, mentre nel 2023 due risoluzioni sono state votate quasi all’unanimità (col solo voto contrario della Turchia, e le astensioni di Colombia, Siria ed El Salvador), avendo come loro epicentro la cooperazione internazionale per limitare pratiche di pesca illegale, soprattutto di alto mare, che paesi come la Cina stanno portando avanti da decenni, nonché il surriscaldamento delle temperature degli oceani.

I risultati appaiono modesti: a parte qualche iniziativa, anche da parte della stessa Cina, per incrementare l’acquacoltura, preservando maggiormente l’ecosistema marittimo globale, poco è stato fatto, in una corsa che sembra ormai senza fine verso l’accaparramento di risorse ittiche ritenute essenziali, ma sempre più rare e, per questo, più care e appetibili nei mercati asiatici.

Luca Bussotti

(Luca Bussotti è africanista, docente universitario in Mozambico, Portogallo e Brasile, oltre a essere visiting professor in atenei italiani quali Milano e Macerata)

 

 

Pubblicato il
11 Aprile 2025
Ultima modifica
12 Aprile 2025 - ora: 15:53
di LUCA BUSSOTTI

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