Giornalismo, il premio in ricordo di Luciano De Majo
A 14 anni dalla scomparsa, riecco la sua intervista con il padre della “decrescita felice”
LIVORNO. Oggi sono 14 anni che il giornalismo toscano non può più contare sulla “penna” – leggera e inesorabile, ironica e onesta – di Luciano De Majo, più compagno di banco che semplicemente collega nei lunghi anni con me in cronaca al Tirreno. Con una differenza: io, spendendo una intera vita professionale nel quotidiano livornese; lui, girando una sfilza di testate, tipologie di media, settori di comunicazione. Per citarne alcune: nella carta stampata, “Il Tirreno”, “La Nazione”, “L’Unità”; nella radio, “Radio Flash”; nel web, “Greenreport” e molto altro ancora, fra ecologia, politica, nera, sport, amministrazione, giudiziaria. Non è solo una questione di quantità ma anche di qualità: l’interesse nel dar voce a chi non ce l’ha.
A distanza di 14 anni dal giorno in cui poco più che quarantenne se n’è andato la “sua” Livorno lo ricorda, come sempre, con un premio giornalistico organizzato dall’Arci: quest’anno venerdì 28 febbraio alle ore 17 al circolo Arci Di Sorco in via San Jacopo in Acquaviva.
Come ogni anno, lo ricordiamo anche ripescando dal lavoro giornalistico di Luciano: quel lavoro quotidiano che è la reale misura del valore più di ogni eccezionalità. Stavolta, agli articoli scritti per “Il Tirreno” aggiungo quelli che ho rintracciato su “Greenreport” e su “L’Unità”. L’ho fatto sul sito web del quotidiano livornese, l’ho fatto sul mio blog (ilmediterraneo.blog), lo faccio ora in questa nuova avventura alla “Gazzetta Marittima”. Ancora, con due righe dalla canzone più bella dei Pink Floyd: how I wish you were here / we’re just two lost souls / swimming in a fish bowl.
Qui sotto ripubblico l’intervista che per “Greenreport” Luciano fa quasi vent’anni fa a Serge Latouche, grande padre delle idee della “decrescita felice”. Non è una intervista ma un “corpo a corpo” fra i dubbi di un intervistatore con tante curiosità e le risposte di un pensatore controcorrente.
LATOUCHE: VI SPIEGO LA DECRESCITA
di Luciano De Majo
Serge Latouche, il filosofo della decrescita, è stato l’ospite d’onore di un pomeriggio di riflessione promosso a Firenze dalla Fondazione Balducci, in collaborazione con Comune e Provincia. Francese di Vannes, 66 anni, docente di economia all´Università di Paris XI e presso I’Iedes (Institut d’étude du développement economique et social), Latouche ha parlato di occidentalizzazione e globalizzazione in una delle sontuose sale della Biblioteca comunale fiorentina. Lo abbiamo avvicinato sottoponendogli alcune domande.
Mentre in tutto il mondo, destra e sinistra si confrontano su come accelerare la crescita economica, Lei sostiene la decrescita. Per quale fondamentale motivo?
«Perché una crescita infinita è incompatibile con un mondo finito. E’ una questione di buon senso. La parola decrescita, più che un concetto, è uno slogan, che serve per segnare una rottura con la religione della crescita. Se vogliamo essere rigorosi, allora dovremmo parlare di a-crescita. Dobbiamo diventare ateisti della crescita. Penso che mai come in questo momento sia assolutamente necessario, perché già superiamo di oltre il 30 per cento la capacità di rigenerazione della biosfera».
Ultimamente una parte della sinistra mette in discussione sia il concetto che la prassi della crescita e che, addirittura, qualche ambientalista storico giudica fatuo e datato questo dibattito, almeno da quando gli ambientalisti hanno cercato di introdurre in economia le leggi della termodinamica. Lei che cosa ne pensa?
«È un dibattito che già si era affacciato negli anni ’70, in effetti. Ma i tempi, in quel momento, non erano ancora maturi, perché era ben prima di Chernobyl, prima della mucca pazza, prima di tutte le cose che oggi conosciamo. Dagli anni ’70 a oggi la situazione dell’ambiente è peggiorata enormemente. Oggi non si può più rinunciare a fare questo dibattito. È la ragione per la quale oggi sinceramente abbiamo molto più successo. Negli anni ’70 si parlava, sì, di crescita zero, ma l’intuizione della decrescita ancora non c’era stata».
Qualche anno fa si pensava che con l’avvento della società e dell’economia dell’informazione ci stessimo avviando verso una “dematerializzazione” delle produzioni e dei consumi e quindi, inerzialmente, verso la sostenibilità ambientale. Ciò se, e in quanto, si è avverato, riguarda l’utilizzo di energia e materia per unità di prodotto ma proprio la crescita dei volumi prodotti vanifica questo sforzo. Lei cosa ne pensa?
«Naturalmente la dematerializzazione è una buona cosa. Anche nella società della decrescita pensiamo di sviluppare i beni immateriali, come i beni relazionali, nelle società occidentali come la nostra dove i servizi rappresentano il 70 per cento del prodotto interno lordo. Ma questa secondo me è una falsa dematerializzazione perché abbiamo esportato, direttamente o indirettamente, l’impatto materiale del nostro consumo sui paesi e sui popoli del sud del mondo. Oggi la maggior parte dei prodotti vengono realizzati in questi paesi, dove abbiamo delocalizzato gran parte dell’industria pesante importandone i frutti. In più la produzione immateriale come l’elettronica ha necessità di reti che funzionano su basi materiali. Servono infrastrutture pesanti. E per il momento vediamo che la produzione non è certo diminuita».
L’argomento utilizzato dai sostenitori ad oltranza della crescita economica illimitata, magari anche di qualità, è che altrimenti non ci sarebbero risorse da ridistribuire e di ciò ne soffrirebbero i più deboli e i meno abbienti. Lei non crede che sia proprio questo il pericolo?
«La crescita genera indubbiamente diseguaglianze, ma è vero che al medesimo tempo genera anche lavoro e dunque, anche se i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri almeno raccolgono le briciole della ricchezza. Il problema, però, mi pare un altro».
Quale?
«Siamo chiusi in una contraddizione: questa crescita distrugge il pianeta. Quando il pianeta sarà distrutto, non ci sarà proprio più niente da ridistribuire. È vero che non c’è niente di peggiore di una società basata sulla crescita che non cresce. Qui si tratta non di riformare la società, ma di cambiarla. Serve una rottura. Dobbiamo prendere una direzione totalmente opposta. È come se fossimo su un treno, qui a Firenze, diretto verso Roma, mentre noi vogliamo andare a Milano: non basta rallentare la velocità, bisogna fermarlo e prenderne uno che va in un’altra direzione. Sull’obiettivo non c’è possibilità di mediare, sui mezzi di realizzarlo invece si possono trovare transizioni e si può discutere. Ma non c’è dubbio che la rottura debba essere radicale».
In Italia mancano pochi giorni alle elezioni politiche. Vede qualcuno degli attori che si propone obiettivi come quelli che sostiene lei?
«Ho fatto la campagna elettorale a Parma per il candidato dei Verdi, che è un bravo medico. Abbiamo fatto un dibattito anche con Grazia Francescato, che è venuta da Roma. Dicono che nel programma della sinistra hanno tentato di introdurre qualcosa: non è facile, ma è già un passo in avanti che si possa parlare di questi argomenti, visto che fino ad oggi era un dibattito quasi proibito».
E a destra si può parlare di questi temi?
«Non lo so, ma penso che tradizionalmente la sovversione è a sinistra, non a destra. E questi, a loro modo, sono temi un po’ sovversivi».
Marx sottolineava che in un sistema capitalistico ciò che conta è il valore di scambio, non il valore d’uso. Non si potrebbe utilizzare proprio questo punto di vista per sostenere non tanto la decrescita (la riduzione dei valori di scambio), ma una crescita diversa (l’enfasi su certi valori d’uso cui la sinistra è tradizionalmente legata: la cultura, l’ambiente, ecc.)? In altre parole, non è migliore un mondo dove invece di proporre che l’operaio alla catena di montaggio produca 70 pezzi al posto di 100 (la decrescita), si propone che l’operaio cambi mestiere, si metta a curare giardini pubblici perché i “consumatori” decidono di attribuire valore a questa prospettiva e per questo (non più per i pezzi fuoriusciti dalla catena) sono disposti a pagare un prezzo?
«Io penso che sia necessario produrre meno materiale, meno peso ambientale e produrre diversamente. Ma non si tratta di un’altra crescita. Si tratta di uscire dalla crescita: quello della crescita è un concetto perverso, perché non ha in sé il senso del limite. Per questo dobbiamo pensare che è ragionevole crescere fino a un certo punto, non oltre la soddisfazione dei bisogni. Invece ciò che si vuole è la crescita per la crescita. Anche perché nella nostra società si trova il modo per dire che i bisogni non sono mai soddisfatti, creandone sempre di nuovi».
Luciano De Majo

Luciano De Majo, cronista scomparso a 40 anni nel 2011
Questi invece sono i link ai pezzi che sul mio blog ho dedicato in passato a Luciano De Majo e al suo lavoro di cronista:
Luciano e il suo Cantiere fanno capofilo al “mangificio” di Porta a Mare
I millecinquecento mondi che piangono Luciano
Gli occhi curiosi e il cuore spalancato ad ascoltare il mondo
Questi invece sono alcuni articoli ripescati fra quanto ha scritto Luciano De Majo nel corso degli anni
MODÌ, NEL CAVEAU LE TRE TESTE CONTESE
Il Tirreno, 21 agosto 2009
Le tre teste scolpite in pietra arenaria, trovate ormai diciott’anni fa nella carrozzeria di Piero Carboni, sono di nuovo in città. Le custodisce il caveau di una banca cittadina. Bruno Domenici, che della famiglia Carboni è uno degli eredi, non dice quale, ma giura che è così.
Nessuno – a parte Carlo Pepi – ha mai detto che siano il frutto del lavoro di Amedeo Modigliani. Ma nessuno è neppure riuscito ad affermare il contrario, se è vero che lo stilista Giuseppe Saracino e lo stesso Pepi sono stati assolti dal tribunale di Pisa (a maggio del 2002), dall’accusa di voler esportare opere false, quando chiesero l’autorizzazione a portarle all’estero da parte della Sovrintendenza di Pisa. Carboni, invece, non ebbe neppure la soddisfazione di vedersi assolvere, visto che morì a processo in corso, nel 1998. Nel dibattimento, alcuni periti dissero che le sculture non erano attribuibili a Modì, ma ritennero false anche le foto di altre opere in esposizione in quel momento a New York.
Al sicuro. Oggi quelle tre teste, dunque, insieme al contenuto del baule che Carboni si ritrovò per le mani nel 1991, contenente anche alcuni capelli (di Modigliani?) sono al sicuro. E sono di proprietà degli eredi dei personaggi che dettero vita a questa vicenda. Perché l’accordo stretto fra Carboni e Saracino, lo stilista al quale il carrozziere raccontò la storia, è stato confermato dagli eredi dei due: Carboni, come detto, è morto undici anni fa. Saracino, invece, se n’è andato quattro-cinque anni fa nel silenzio totale. Fu in quel momento che rispuntò la terza testa che sembrava scomparsa nel nulla e che invece custodiva lui. Nessuno dette notizia della sua morte, eppure fu Saracino, con la sua verve istrionica, a lanciare alla ribalta le sculture, facendo da portavoce a Carboni.
Hanno un nome. La saggezza, la bellezza, la nera. Quelle tre teste ebbero anche un nome. Sono state battezzate, in qualche modo. Per la prima volta furono tirate fuori a ottobre del 1991, in una saletta dell’allora decadente Hotel Palazzo. E ora che giacciono nella cassaforte di una banca, la famiglia Carboni-Domenici spera di poter ottenere una parola definitiva. «Piero Carboni era il cugino di mio padre – dice Bruno Domenici – e tutti e due sono morti con l’osso in gola: nessuno sa dire con certezza se quelle teste sono autentiche o false. Ma serve una parola di chiarezza».
Luciano De Majo
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UN TG DA GORGONA, L’ISOLA CHE NON C’È
L’Unità, 1 aprile 1997
Sembra quasi di parlare dell’isola che non c’è, eppure Gorgona esiste eccome. Un’isola carcere minuscola, la più piccola di quelle che compongono l’arcipelago toscano: un paio di chilometri quadrati di superficie, percorsi da strade tortuose, e separati dalla città di Livorno da un braccio di mare che si attraversa in meno di un’ora di traghetto.
Sono tutti detenuti “a bassa pericolosità sociale”, quelli di Gorgona. Una popolazione carceraria davvero tranquilla, che non supera le 130 persone, guidata da Carlo Mazzerbo, un direttore giovane e aperto, “alla Brubaker”, si usa dire a Gorgona, prendendo a modello il personaggio interpretato da Robert Redford in un film di qualche anno fa. Proprio in questo fazzoletto di terra è nata l’idea del “Tg galeotto”. Un’idea originale, sì, ma non la sola partorita dal carcere, che già qualche anno fa si rese protagonista di altre esperienze importanti, sul fronte della comunicazione.
A Gorgona si è stampato per alcuni mesi “Dentro”, un giornaletto aperto alle penne più creative dei detenuti, alle loro aspirazioni, ai loro ricordi, alle loro aspirazioni di libertà. E sempre a Gorgona i detenuti hanno dato vita a un gruppo musicale prima (anche quello si chiamava “Dentro”) e un gruppo teatrale poi. Le iniziative, insomma, non mancano. Ma quella del telegiornale è sicuramente la più clamorosa, oltre che la più suggestiva.
Il “Tg galeotto” è un telegiornale come tutti gli altri. Contiene servizi di cronaca, spaccati di vita della comunità isolana. E, soprattutto, verrà trasmesso, come un normalissimo telegiornale, sugli schermi di un’emittente locale livornese. Eppure tutte queste iniziative, che iniziano con l’attività del gruppo musicale e che hanno, come ultima esperienza, quella del telegiornale, hanno un solo filo conduttore: il rapporto che l’isola di Gorgona ha instaurato con la città di Livorno, e in maniera più stretta col mondo delle associazioni livornesi. Non a caso, quello del “Tg galeotto” è un progetto dell’Arci, che, nato nell’estate scorsa, ha ottenuto un grande successo dalle istituzioni, locali e nazionali, e che è divenuto realtà. È dei giorni scorsi la presentazione ufficiale del progetto, svoltasi in Gorgona alla presenza della vicepresidente della Regione Toscana Marialina Marcucci.
In veste di esperti, ci saranno Carmen Bertolazzi e Guido Morandini: sono loro i professionisti incaricati di seguire le riprese e di coordinare l’attività della redazione, composta da una pattuglia di detenuti disposti, come al solito, a gettare il cuore oltre l’ostacolo di un “mestiere” nuovo ma stimolante. Che cosa sarà possibile ricavare dalla visione del “Tg galeotto”? Tante notizie, alcune delle quali sconosciute al grande pubblico. Per esempio, il fatto che Gorgona è un carcere tutto particolare, dove i detenuti di giorno lavorano portando le capre al pascolo, coltivando la terra, cuocendo il pane o preparando i formaggi e di sera dormono nelle loro celle.
Ma anche che quella di Gorgona è una comunità, in tutto e per tutto. Ci sono i detenuti, sì, ma anche gli agenti di polizia penitenziaria. Costretti, anche loro, a vivere come detenuti, insieme alle loro famiglie. Il “Tg galeotto” non durerà all’infinito: l’operazione andrà avanti per tre mesi, nei quali gli operatori dell’Arci e i detenuti raccoglieranno i materiali prodotti per poi realizzare un documentario, in grado di raccontare questa esperienza così nuova. L’obiettivo dell’iniziativa, ovviamente, è “aprire” ancora di più il carcere (un carcere senza cancelli) nei confronti della realtà esterna, ma anche formare nuove professionalità. Quanto al futuro di Gorgona, c’è chi pensa ad aprirla a turismo “consapevole”, limitato nel numero dei visitatori e nella durata dei soggiorni. Con uno scopo ben chiaro: salvaguardare un ambiente in larga parte ancora sano.
Luciano De Majo
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I PORTUALI RICONFERMANO RAUGEI
Il Tirreno, 30 giugno 2010
Curiosa la storia. Curiosa perché a scrutinio finito, succede che il candidato più abbracciato, fra gli aspiranti a consigliere della Compagnia portuali, è quello che non ce l’ha fatta. Il primo dei non eletti, così si dice ufficialmente: Maurizio Colombai, da pochi giorni ex segretario della Filt Cgil, si è fermato a sette voti dall’impresa.
Il risultato del ballottaggio premia, così, il consiglio uscente: oltre a Raugei, Boccone e Dalli eletti al primo turno, rientrano Giacomo Marchesini e Vladimiro Mannocci insieme a Fulvio Romeo Franchini, il più giovane del gruppo. Per Marchesini è stata una passeggiata: dei 441 votanti (la percentuale di partecipazione è stata dell’84 per cento, 286 hanno indicato il suo nome). Stesso numero di voti per Mannocci e Franchini: 187, mentre a Colombai ne sono andati 180. Ma per lungo tempo, durante lo scrutinio, l’ex segretario della Filt è stato fra i primi tre, prima di subire il sorpasso di Mannocci, con Romeo che è stato costantemente secondo. Mannocci è rientrato fra i primi tre all’altezza delle duecento schede scrutinate. Ha seguito lo spoglio, come tutti gli altri, in una sala Montecitorio caratterizzata da un silenzio teso. Da anni, infatti, non si ricordava un ballottaggio dall’esito così incerto.
Al termine dello scrutinio, l’applauso liberatorio e gli abbracci per tutti. Soprattutto per chi, come Colombai, a lungo ha cullato il sogno di entrare fra i primi tre ma non ce l’ha fatta. «180 voti sono comunque tanti – ha detto – e da questo punto di vista non posso che essere soddisfatto. Mi stupisce che mi chiedano se davvero tornerò a lavorare in banchina o no: certo che ci torno. Sembra quasi che la normalità sia un’anomalia». Se Fulvio Romeo Franchini è riuscito a farcela, deve ringraziare i molti voti singoli che ha preso e che gli hanno consentito di superare Colombai, inserito in molte schede insieme ai nomi di Marchesini e Mannocci. Un dato, questo, che ha fatto un po’ storcere il naso ai vertici del circolo del Pd, che l’hanno notato già durante lo spoglio. Ma abbozzare un’analisi del voto è impresa assolutamente proibitiva, vista la babele di combinazioni possibili (sulla scheda c’erano sei nomi e se ne potevano votare uno, due o tre).
Subito riunito in sessione straordinaria, il nuovo consiglio della Compagnia portuale ha eletto all’unanimità alla presidenza Enzo Raugei. «Complessivamente è stato un esito confortante – ha commentato il riconfermato Raugei – il consiglio è stato confermato ed è arrivato un segnale di rinnovamento importante con l’ingresso di Romeo Franchini». Proprio lui, Fulvio Romeo Franchini, era il più emozionato: «Siamo soddisfatti, il lavoro di squadra ha funzionato. I voti singoli? Meno male ci sono stati, altrimenti sarebbero stati dolori».
In silenzio, come d’abitudine, Giacomo Marchesini. «Scordatevi che io commenti qualcosa – dice – hanno votato i lavoratori e questo basta». Mentre Mannocci, l’autore del recupero più forte, cerca di mantenere un aplomb inglese: «E’ un esito importante per la Compagnia, nessuno ci può condizionare dall’esterno. Il mio risultato? Quello conta meno. Posso solo dire che sono abituato alla lotta e ho lottato anche questa volta».
Luciano De Majo
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LUNARDI PUNISCE IL PORTO DI LIVORNO
L’Unità, 5 luglio 2003
Il ministro Lunardi mette il porto di Livorno in mano a un commissario, città e regione si preparano ad una lunga battaglia di carte bollate annunciando ricorsi. Da ieri mattina, l’Autorità portuale di Livorno è guidata da Bruno Lenzi, imprenditore portuale livornese di 67 anni, indicato al ministro dalla Camera di commercio livornese e dal Comune di Capraia Isola, mentre la Provincia e il Comune capoluogo avevano puntato su altri candidati, quali Fabio Del Nista, assessore della Margherita, e Franco Mariani, direttore dell’Associazione che raggruppa le compagnie portuali. La Regione Toscana e le istituzioni locali livornesi non hanno gradito la decisione unilaterale del ministro, che ha il potere di nomina del presidente dell’ ente che governa il porto «d’intesa con il Presidente della Regione», secondo la legge. Mancando l’intesa, è scattato un commissariamento che ha scatenato una serie di reazioni all’insegna dell’indignazione.
La prima, in ordine di tempo, è stata quella del Presidente della Regione Toscana Claudio Martini, che pri- ma ha annunciato l’immediato ricorso alla Corte costituzionale e poi ha ricordato che la concertazione non dev’essere la materia forte del governo Berlusconi. La stessa cosa è accaduta infatti per il Parco dell’Arcipelago toscano, anch’esso commissariato, stavolta dal ministro Matteoli. Lunardi, insomma, pare averla fatta grossa e non solo agli occhi degli amministratori toscani. Il coordinatore della segreteria Ds Vannino Chiti parla di «atto scandaloso» e, al pari di Martini, ritiene che l’unico atto di saggezza sarebbe «ritirare la nomina» per avviare un percorso di concertazione.
La mobilitazione nei Ds arriva insomma ai livelli più alti. Da San Miniato dove ha presentato la Festa regionale toscana dell’Unità, il presidente Massimo D’Alema ha detto che «il governo ha violato la legge che prevede un’intesa con la Regione», ribadendo che «questo è uno stile e un modo di governare non fondato sul rispetto della legge, ma su un uso arrogante del potere». Anche il responsabile economico della Quercia Pierluigi Bersani non usa mezzi termini: «Ne faremo un caso nazionale – ha detto – perché siamo di fronte ad un atto di arroganza senza precedenti. E’ un atto illegittimo e un doppio schiaffo alla città di Livorno e alla Regione Toscana».
In città, nel frattempo, il sindaco Gianfranco Lamberti ha annunciato che il Comune ricorrerà al Tar del Lazio ed ha contattato il presidente nazionale dell’Anci, Leonardo Domenici, che ha chiesto di porre all’ordine del giorno della Conferenza unificata Stato-Regioni-Autonomie locali, prevista per lunedì 14 a Roma, la questione del commissariamento del porto di Livorno.
Il passaggio di consegne nel quartier generale dell’Autorità Portuale, frattanto, è avvenuto ieri mattina. Il presidente uscente Nereo Marcucci e il commissario Bruno Lenzi sono rimasti a colloquio dopo le firme di rito. E da Lenzi sono arrivati segnali di distensione: «Sono un tecnico – ha detto – di politica non m’intendo. E le polemiche legate ad essa non mi interessano. Cerco collaborazione, rispetto tutti e da tutti pretendo rispetto».
Luciano De Majo
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CARLA RAVAIOLI: LA FATICOSA SFIDA DELLA DECRESCITA
Greenreport, gennaio 2006
«Gli italiani si stanno indebitando ma senza consumare di più? E’ un fenomeno al quale si sta assistendo negli Stati Uniti ormai da molto tempo. Sono le banche stesse a invitare le persone e le famiglie a vivere il loro domani in anticipo. A godere oggi, insomma, ciò che sarà il loro guadagno futuro». E’ la riflessione di Carla Ravaioli, ambientalista e saggista di fama nazionale, davanti alle notizie di stampa che riprendono l’indagine pubblicata a metà dicembre da Eurispes, secondo la quale il credito al consumo si va espandendo sempre di più ma complessivamente i consumi non crescono. «Ciò che si rileva – prosegue Carla Ravaioli – è questa spinta al consumismo che ormai non trova supporto nei redditi reali di larghe fasce della popolazione di tutto il mondo, anche in occidente. Sì, anche nei paesi più ricchi c’è una fascia minore che si sta arricchendo ma quella maggiore si impoverisce. Siccome il nostro sistema, quello capitalistico, è fondato sull’accumulazione e sui consumi, affinché questa crescita non si arresti e neanche diminuisca è stato posto in essere l’invito al debito, paventando tassi risibili. Insomma, il debito sta diventando uno strumento per il consumo».
Difficile dire quanto sia durevole un modello del genere. Secondo Carla Ravaioli «la cosa ha tutta l’aria di essere estremamente effimera». «Ma – aggiunge – se lei guarda la pubblicità, che è uno degli strumenti determinanti per la grande massa, le promesse di oggetti anche costosi che vengono consegnati senza un minimo di corresponsione immediata rappresentano lusinghe alle quali è difficile resistere. E’ uno dei tanti modi escogitati per tenere artificiosamente in piedi un sistema che a mio avviso è sempre più precario».
«Un aspetto da non dimenticare – dice Carla Ravaioli – è che il modo principale per continuare a produrre e consumare è la guerra: la produzione delle armi viene calcolata in positivo nel computo del Pil. Sono merci che circolano, che vengono prodotte e vendute con la differenza che il loro consumo è la guerra: non è una considerazione secondaria…».
E le imprese della distribuzione che hanno, fra i loro compiti, anche quello di educare i consumatori? «Ah, lei parla delle coop? Beh, nonostante queste pubblicità che dicono in maniera un po’ pacchiana che ciò che è loro è anche nostro, ormai sono imprese capitalistiche. Poi i profitti non vengono spartiti, d’accordo, vanno a riserva indivisibile: sono disposta a pensare che le coop hanno molti meriti, ma gli strumenti che usano sono gli stessi. Ci sono le imprese truffaldine e quelle no. Ma sempre di imprese si tratta».
Carla Ravaioli è autrice di molti saggi sui consumi. Dal suo “La crescita fredda” (1985) all’ultimo “Un mondo diverso è necessario” che esamina tutti gli aspetti negativi della globalizzazione neoliberista, ha ormai vivisezionato il nostro modo di interpretare la vita, scrivendo anche un dialogo con Bruno Trentin, il “Processo alla crescita” datato 2000. Impossibile non chiederle se la spinta al consumo infinito possa trovare un argine. «Comincia ad esserci una certa stanchezza del consumismo senza senso – è la risposta – tanto che in certi ambienti si intravede la spinta alla decrescita, come opposizione all’imperativo della crescita illimitata. Si riscontrano critiche anche radicali e comportamenti non conformi, ma ciò riguarda una strenua minoranza. La maggioranza composta da persone che emergono dalla povertà, o che non ne sono ancora emerse ma che vengono raggiunte dalle comunicazioni planetarie, prova una attrazione fatale per il mondo occidentale. E’ impossibile scegliere di buttare via ciò che non si possiede. Ciò che è possibile è tentare di disinquinare la cultura comune. E’ un percorso faticoso, ma è quello che ci resta».
Luciano De Majo
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LIVORNO AL TOP DELL’INQUINAMENTO
Il Tirreno, 23 ottobre 2008
LIVORNO. Se lasciamo da parte Taranto, secondo l’Inventario delle emissioni e delle loro sorgenti siamo la provincia più inquinata d’Italia. Provincia e non città capoluogo, concetto da chiarire prima di ogni altra considerazione, visto che la gran parte delle sostanze inquinanti arriva dalle grandi industrie distribuite nel territorio provinciale.
Ciò che salta all’occhio sono i 2930 chili di arsenico e i 5495 chili immessi in acqua dalla Solvay di Rosignano. Numeri che fruttano, alla nostra provincia, il primo posto a livello nazionale nelle emissioni di arsenico e il secondo in quelle di piombo. Sempre la Solvay si nota per le emissioni di mercurio.
Scendendo più a sud, invece, colpiscono gli oltre 9mila chili di cianuri scaricati in mare dalla Lucchini, a Piombino. I dati, che risalgono al 2006 e fanno parte dell’Inventario delle emissioni, sono stati rielaborati dall’associazione Peacelink, che ha redatto una graduatoria mettendo insieme tutti gli indicatori riguardanti le emissioni industriali.
La parte nord della provincia, quella che comprende la città capoluogo, si distingue per l’emissione in aria di macroinquinanti come anidride carbonica, ossidi di azoto e ossidi di zolfo. Le emissioni della centrale Enel di via Salvatore Orlando, per esempio, sfiorano le 800mila tonnellate l’anno.
Quelle della raffineria Eni arrivano quasi a 500mila tonnellate, mentre assai superiori sono quelle delle varie centrali che si trovano a Piombino: dall’Enel a quella interna alle Acciaierie. Per ciascuno dei 336mila abitanti della provincia di Livorno, vengono immesse in aria 28,64 tonnellate di anidride carbonica. Anche in questo caso, la media sale a Piombino (si sfiorano le 165 tonnellate per abitante) e scende nell’area Livorno-Collesalvetti, dove il rapporto è di 12 tonnellate per abitante.
Mancano, da questi dati, quelli riferiti alle cosiddette “emissioni diffuse”, provenienti dal traffico delle auto, presente in tutte le realtà e quindi sicuramente da tenere in considerazione ai fini dell’inquinamento complessivo. Su queste cifre, frattanto, si registrano anche alcune prese di posizione politiche. La consigliera regionale di An Marcella Amadio ha annunciato una interrogazione urgente agli assessori regionali all’ambiente e alla sanità nella quale chiederà anche «i nuovi dati sulle emissioni industriali visto che questi si riferiscono al 2006».
Secondo il presidente della Commissione ambiente e territorio del Consiglio regionale Erasmo D’Angelis (Pd) occorre invece «aumentare in qualità i controlli sugli agenti atmosferici, rendendoli permanenti e più rigorosi». D’Angelis fa anche notare che però «nella direzione di una politica di maggiori e più qualitativi controlli sono quasi azzerate le risorse statali. Il Governo Berlusconi ha fatto la magia di far sparire le poche risorse previste dalla Finanziaria Prodi per il disinquinamento, l’abbattimento degli inquinanti e a favore del trasporto pubblico locale».
Luciano De Majo