Fondi d’investimento, perché demonizzarli?

Fabrizio Vettosi
Dal dottor Fabrizio Vettosi, managing director, riceviamo:
“Caro direttore, mi riferisco alla nota del dott. Ruffini in merito al “warning” lanciato dallo stesso nei confronti dei “Fondi di Investimento”, presunti “appropriatori del demanio pubblico”.
Preferisco partire dall’aspetto semantico dell’art. 46 CdN che appare piuttosto chiaro in quanto riferito all’impresa ed ai suoi beni e non al soggetto che la controlla. Appare evidente e logico, infatti, che se l’impresa disponesse la vendita di un bene insistente su area in concessione, semmai mutandone la destinazione da parte dell’acquirente, ciò sarebbe in spregio al rapporto di concessione e, pertanto, apparirebbe pertinente la preventiva autorizzazione dell’Autorità. Altrettanto dicasi in caso di subingresso del soggetto concessionario.
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Tali fattispecie non sono paragonabili al passaggio di controllo della società concessionaria la quale ovviamente non muterebbe la sua operatività e la sua affidabilità, e laddove ciò avvenisse, con conseguente inadempimento degli obblighi concessori, l’Autorità interverrebbe (o potrebbe farlo) con l’istituto della revoca della concessione.
Pertanto mi sembra davvero fuori luogo questa populistica campagna (periodica) di demonizzazione dei “Fondi di Investimento” considerati quasi un “soggetto imprenditoriale” a parte; oserei dire un “appestato” tale da essere discriminato nella libera operatività di impresa; e mi preme precisare quanto segue:
Il termine “Fondi di Investimento” è molto generico e, pertanto, prima di essere utilizzato andrebbe compreso nelle sue diverse declinazioni. La parola “Fondo” è piuttosto abusata e va da una semplice Holding di Investimento, ad un Fondo c.d. “aperto” al dettaglio (quelli che tutti noi compriamo in banca), ad un Fondo “riservato” (ad investitori istituzionali), ad un Fondo di Turnaround o Distressed (quelli che acquistano crediti non performanti o di aziende da ristrutturare), ad un Fondo di Private Debt (che presta soldi similmente ad una banca), ad un Fondo di Private Equity (che rischia il proprio capitale per diventare socio od acquisire un’azienda privata).
Probabilmente il dott. Ruffini si riferisce a questi ultimi che si sono resi protagonisti di alcune recenti operazioni e di cui, vivaddio, dovremmo andarne fieri e riempire le pagine di giornali di elogi e di menzioni piuttosto che di critiche. Infatti, in qualunque Paese al mondo che fa della logistica il suo orgoglio (vedi Olanda, Belgio, Germania, Singapore. Honk Kong), l’attrattività dei propri asset logistici da parte di Investitori Istituzionali Internazionali è accolta con favore ed orgoglio. In Italia, invece, la denigriamo quasi definendo i soggetti entranti come gli “Unni” alla ricerca di razzie.
Caro dott. Ruffini recentemente in Italia, e dico finalmente, soggetti quali ICon Infrastructure, Infravia, Infracapital, Global Infrastructure, Basalt, F2i, e nel mio piccolo anche la piccola società che dirigo, si sono accorti che esistono delle eccellenze che forse possono essere valorizzate ed ottimizzate, oltre che poter diventare dei campioni Internazionali (e non solo Nazionali), piuttosto che essere detenute da privati che mirano (e lo dico con molta sincerità) a curare i propri “orticelli” in quelli che per anni sono stati “condomini di palazzi” (i Porti e le varie gestioni “semi-familiari” di questi).
Questi stimati colleghi, oltre ad avere la fiducia mia e sua (lei non lo sa, ma a volte amministrano le nostre attuali e future pensioni), sono dotate di team di professionisti il cui scopo è la tutela e la valorizzazione dei capitali affidati e non la tutela di interessi personali a scapito di altri o l’acquisizione di consensi politici (voti e popolarità). Da cui ne deriva che lo scopo che induce tali soggetti ad investire nei porti e nelle infrastrutture nazionali non è certo quello di fare una “mosconata” “mordi e fuggi”, bensì di rendere più efficienti tali infrastrutture e di portare governance e disciplina in azienda a volte preda di una cultura di impresa che ne determina l’eutanasia a scapito dello sviluppo
Evidentemente ci dovremmo domandare perché i Fondi di Private Equity Infrastrutturali (e sottolineo questa specializzazione) hanno posto sotto attenzione questi asset. Probabilmente lo è perché, sino ad oggi, la politica non è stata capace di rendere efficiente il sistema e, quindi, hanno intravisto concrete opportunità di valorizzazione prospettica che potrà derivare da sinergie e maggiore attrattività commerciale.
Torno per un attimo all’origine e le chiedo : quante volte ha visto cambiare la proprietà di una società terminalistica da un soggetto privato ad un altro soggetto privato: si è mai scandalizzato? Cosa vi è di diverso se l’acquista un Fondo di Private Equity? Mi sembra onestamente una discriminazione ingiustificabile. Anzi molte volte queste società sono finite nelle mani di soggetti che eufemisticamente potremmo definire non molto capaci (imprenditorialmente e finanziariamente) determinandone poi sorti fortemente negative. Non sarebbe stato meglio, invece, se fossero finite nelle mani di soggetti finanziari molto più disciplinati e dotati di adeguate risorse?
Le potrei fare degli esempi in entrambi i sensi, ma sarebbero strumentalizzati, mi limito a citarne uno vicino alla nostra amata Livorno, quello di MarterNeri, azienda gestita in maniera esemplare dal suo fondatore (Giorgio Neri) che ha avuto la lungimiranza di accompagnarsi per ben quattro volte nella sua vita imprenditoriale ad un Fondo di Private Equity. Ebbene, questo Gruppo ha sempre accresciuto i suoi risultati ed il suo valore e costituisce un buon esempio da replicare ed una strada per tanti che, invece, sono indotti a rimanere arroccati a difesa di posizioni utilizzando strumenti anacronistici
Mi scuso per l’appassionato sfogo, rinnovo la mia stima per Lei e rispetto le Sue riflessioni, ma mi sembrava opportuno un chiarimento forse un po’ diffuso e didascalico, ma quanto mai necessario visto che negli ultimi sette anni in Italia sono stati investiti tra Genova, Livorno, Trieste, Venezia, Carrara oltre 500 mil. di euro da parte di Fondi Infrastrutturali per acquisire quote di partecipazione in aziende concessionarie in ambito portuale, e ciò senza tener conto degli investimenti in altre forme di infrastrutture (società di traffico passeggeri e ro-ro, e società ferroviarie). Un ultimo punto, sempre di natura prettamente teorica: normalmente i Fondi Infrastrutturali investono con un orizzonte c.d. “paziente” ovvero di circa dieci anni, sinceramente a volte vedo privati con orizzonti ben più corti, per non dire speculativi.
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Ringraziamo per prima cosa questo corposo intervento dell’amico Vettosi: sui Fondi d’investimento in effetti si dice oggi (e si scrive) di tutto e il contrario di tutto. Senza entrare nel merito – anche perché non è nostra materia – potremmo cavarcela con il ricordare che come in tutte le cose di questo mondo, ci sono Fondi “buoni” e Fondi “rischiosi”. Non solo rischiosi per chi li sottoscrive, ma anche e specialmente per quello che possono determinare in campo operativo, se l’obiettivo primario è di remunerare chi investe. Va anche riconosciuto che oggi al mondo c’è – ci dicono – un eccesso di liquidità in cerca di investimenti. Il che sul piano economico e sociale è meglio che questa liquidità venga investita per supportare iniziative e lavoro che non farla dormire in banca. Semplicistico? Può darsi, ma sul tema di più non osiamo.
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