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Finché la barca non va…

DÜSSELDORF – Al rientro da quello che è ormai uno dei più importanti saloni nautici, le aziende italiane che costruiscono barche s’interrogano sulle prospettive del mercato prossimo venturo. E a parte i trionfalismi più o meno di facciata, non sembra che siano rose e fiori. Pochi hanno voglia di parlarne: ma lo stato dell’arte viene definito dagli ottimisti un momento di riflessione mentre i pessimisti temono che stia entrando una nuova crisi del comparto. “Burrasca forte dritto di prora” ci ha detto qualcuno. Altri sono entrati nel dettaglio: si costruiscono troppe barche rispetto ai potenziali clienti, che ormai stanno riducendosi più che altro a quelli del ricambio. Morale: ci sono più barche di quante se ne vendano. E il Boot sembra averlo confermato.

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Gli analisti più attenti si richiamano anche al mercato generale dell’auto: che sta subendo lo stesso regime di stop-and-go, con prevalenza dello stop. Le nuove generazioni sono meno interessate delle vecchie sia all’auto che alla barca: tanto che l’età media di chi persevera, con la barchetta o con lo yachts, è cresciuta in modo preoccupante. Nei dettagli il mercato, quello che è rimasto, si è spostato: sono finiti i tempi dei venti/trentamila motori fuoribordo senza patente all’anno, siamo oggi agli spiccioli e i costruttori puntano semmai alle alte potenze (siamo arrivati ai 350/400 CV fuoribordo…); i cabinati a vela, un tempo lo zoccolo degli appassionati, sono sempre di meno e chi riesce a tenerseli va semmai verso un refitting, un rinnovo degli accessori, qualche supporto elettronico in più. Sulla grande e grandissima nautica, dove l’Italia è al vertice, siamo messi bene come costruzioni, ma siamo a zero o quasi come bandiera italiana. E noto.

C’è una terapia valida a fronte di questa preoccupante diagnosi? Forse è anche un problema di infrastrutture, oltre che di burocrazia asfissiante e persecutoria (per prendere la patente nautica il calvario è faticoso e costoso). L’Italia è il paese che ha meno scivoli di tutti quelli del Mediterraneo: il che non aiuta la nautica carrellabile, e quindi la crescita del parco natanti. Il refitting delle barche medie è ancora artigianale e polverizzato, quello delle barche grandi (quasi sempre di bandiera estera) sottoposto a pratiche defatiganti, di cui si parlato anche al recente Propeller di Livorno (ne riferiamo su questo stesso giornale). In sostanza: non basta fare belle barche e barchette, non basta nemmeno cercare di limare i prezzi: occorre che anche e specialmente in campo locale – Regioni e Comuni per primi – si faccia nascere una coscienza nautica, una consapevolezza che dietro ogni barchetta c’è un indotto economico importante per il territorio. La grande e travolgente passione per la barca degli anni ottanta potrebbe tornare se si utilizzassero le leve giuste e non prevalesse ancora in vecchio e stupido adagio che la barca è per i ricchi. Vecchio, stupido, pericoloso ed economicamente castrante. Ma cambiare si può, oltre che si deve.

Antonio Fulvi

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Pubblicato il
1 Febbraio 2020

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