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Quel canto delle sirene

LIVORNO – Un tempo si diceva che le sentenze si eseguono, non si commentano. Tanta acqua è passata sotto i ponti: e il revisionismo totale della tragedia di 27 anni fa davanti a Livorno, dando per scontata la buonafede della commissione parlamentare ma anche della sentenza di allora del tribunale di Livorno, non chiarisce a nostro avviso almeno due elementi non secondari. Il primo: perché il Moby Prince finì contro l’Agip Abruzzo alla velocità davvero elevata di 20 nodi. Il secondo: se anche i soccorsi fossero arrivati entro pochi minuti addosso al relitto in fiamme, chi e  come avrebbe potuto entrare  nella fornace incandescente per salvare almeno una parte delle persone. Terzo punto, ma su questo non ci pronunciamo: sotto inchiesta, se la commissione parlamentare avesse ragione, finirebbero prima di tutti i giudici del tribunale di Livorno. Non è un’ipotesi piacevole.

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Partiamo dal dettaglio dei salvataggi mancati di ipotetici sopravvissuti a lungo dentro la nave rovente. I vigili del fuoco, che arrivarono tra i primi su una delle motovedette della Capitaneria, pur con le attrezzature in dotazione – che certo non avevano i marinai delle vedette – non riuscirono ad avvicinarsi a più di una ventina di metri sopravvento e lo stesso mozzo che si salvò dovette gettarsi in mare e allontanarsi dal relitto per essere raccolto. Si salvò probabilmente perché era l’unico riuscito ad aggrapparsi al tientimano di poppa, con la nave che lentamente navigava a marcia indietro spingendo quindi le fiamme lontano da lui. Allora disse che dentro erano morti tutti, soffocati dal fumo tossico o bruciati: poi forse ci ha ripensato, non è chiaro. Nessuno da bordo riuscì a buttarsi in mare, segno che le povere vittime rimasero in vita per poco, forse intrappolate dalle stesse porte tagliafuoco. Se fossero rimaste in vita per decine di minuti, forse avrebbero tentato di salvarsi dal rogo. È un’ipotesi, una considerazione. Chi come noi vide il relitto che navigava come una palla di fuoco incandescente, capisce bene che entrarvi sarebbe stato impossibile. Dunque: soccorsi in ritardo, certamente si per gli equivoci creati dalle Fake News sulla bettolina e dalla concentrazione di tutti a salvare la gente della petroliera in fiamme; ma possibilità di salire sul Moby rovente per salvarne la gente pressoché inesistente. Non tornerebbe dunque con le conclusioni della commissione parlamentare. Che è politica e ovviamente non può essere insensibile al furor di popolo.

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Ma perché il Moby Prince è finito addosso all’Agip Abruzzo, e a quella velocità? La commissione ha fatto qualche ipotesi, ma scartando a priori la nebbia (che invece molte fonti attendibili continuano a sostenere esserci stata: compresi gli equipaggi di due pescherecci che l’hanno confermato in audizione in tribunale ma non sarebbero  stati mai sentiti dalla commissione parlamentare) è davvero difficile fare ipotesi che non appartengano alla fantascienza. Con la piena visibilità, una petroliera gigante come l’Agip Abruzzo era tutt’altro che invisibile dalla plancia del Moby, anche ipotizzando che navigando a vista nessun si fosse affacciato sullo schermo del radar. Allora? Fu ipotizzato un guasto al timone, che fu trovato – quando il relitto fu raffreddato – con un angolo di barra di 30 gradi. Ci fu uno strano tentativo di manomissione, anch’esso poco chiarito. Eppure un alto ufficiale di marina nostro consulente una ipotesi l’avrebbe formulata: quella cioè che una volta fuori dal cono di uscita dal porto, dalla plancia avrebbero inserito l’autopilota, senza accorgersi che questo era impostato ancora nella precedente manovra di entrata in porto. Una volta inserito – ci hanno spiegato – l’autopilota deve completare la manovra prima di poter essere sbloccato. Quindi il Moby avrebbe fatto un brusca accostata fuori rotta per tornare in porto, impattando a quel punto contro l’Agip. È un’altra ipotesi sballata, o un’altra verità poco chiarita?

Forse la sirena della nostra immagine di prima pagina può essere davvero il simbolo di questa tragedia del mare: Ulisse si face legare e chiudere le orecchie degli altri dell’equipaggio con la cera per cercare di capire, noi a 27 anni dal dramma continuiamo ad ascoltare sirene di ogni tipo, a cercare o inventarci altri colpevoli, a tormentare anche la memoria di quei poveri morti. Tra le tante verità che ci vengono offerte, ne è arrivata adesso un’altra a 27 anni distanza e con tutti i “caveat” del caso. Ci potrà alla fine arrivare la verità vera? E  quando?

Antonio Fulvi

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Pubblicato il
27 Gennaio 2018

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