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Legge di stabilità a riforma portuale il pressing del governo sulle urgenze

Cresce l’attesa su un cambio epocale di rapporti con gli investitori nelle infrastrutture sia sui porti che sui grandi sistemi logistici – Il trasporto ferroviario cargo e i trafori verso il Nord

ROMA – La riforma della portualità, che a più riprese il governo ha promesso entro la fine di settembre, si sta incrociando – o rischia di impattare, secondo alcuni – con l’urgenza di presentare quella Legge di Stabilità che l’UE ha di recente chiesto di conoscere entro il 15 ottobre.
[hidepost]Una corsa contro il tempo, nella quale si sono inserite anche le fibrillazioni partitiche sulla riforma del Senato, che certo non aiutano a varare provvedimenti urgenti e condivisi sull’economia.
Eppure siamo davvero alla svolta epocale. Perché se è vero che il governo intende rivoluzionare – con la nuove legge sulla portualità – un sistema rimasto sclerotico e condizionato dai troppi “pollai” localistici, non potrà ignorare che il rilancio dell’economia nazionale deve necessariamente passare – ha scritto Guido Gentili su Il Sole 24 Ore di domenica scorsa – attraverso una politica economica espansiva, che non faccia crescere eccessivamente il debito pubblico (rimanere ben sotto il 3% imposto dai cani da guardia della UE) ma abbassi realmente l’esorbitante pressione fiscale sua sulle aziende che sui cittadini consumatori.

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Ce la faranno Renzi e Padoan a fare questa specie di miracolo? Dalle interviste ai grandi imprenditori dello shipping e del terminalismo che abbiamo pubblicato in questi giorni – Pierluigi Maneschi nel numero scorso, Marco Simonetti in questo – appare evidente che malgrado le turbolenze del trading mondiale si guarda con una certa fiducia alle possibilità dell’Italia di uscire dalla più pesante crisi recessiva dal dopoguerra ad oggi. Non spaventa troppo nemmeno la frenata della Cina, come non spaventano i “babau” di Bruxelles che – sia pure con meno foga – vorrebbero difendere il “lacrime & sangue”. Ma è anche evidente che per il vero rilancio della portualità italiana, come per una politica espansionistica, il governo dovrà usare in molti casi non solo l’accetta ma addirittura la motosega. Le risorse – quelle che ci sono in campo pubblico – vanno finalmente indirizzate con un serio confronto tra costi e benefici pubblici. E le risorse private – quelle che possono esserci – vanno aiutate facendo stame delle incrostazioni annose di una burocrazia che alimenta se stessa ma ammazza ogni investimento sulle infrastrutture, anche sulle più necessarie.

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L’esempio di Medcenter a Taranto dev’essere paradigmatico. E poi non bisogna dimenticare che ammodernare i porti, dar loro maxi-fondali e banchine adeguate, servirà a poco se alle spalle non ci sarà davvero una rete logistica basata anche sull’efficienza del trasporto ferroviario cargo. E’ stato ricordato di recente che tra pochi anni i trafori del Brennero e del Frejus metteranno la zona più produttiva dell’Italia a portata dei porti del nord Europa con connessioni tre volte più rapide che con i porti nazionali: e anche se a Milano si dice che il porto naturale dev’essere Genova (con eventuale proiezione anche più a sud su La Spezia e Livorno per quanto riguarda il Tirreno) siamo, al momento, più che ai fatti alle buone intenzioni. E si sa che di buone intenzioni è lastricata la strada dell’inferno.
A.F.

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Pubblicato il
23 Settembre 2015

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