LIBRI RICEVUTI (di Antonio Fulvi)
La “strega di Baratti” di Stelio Montomoli (Edizioni Ouverture)
Con questo nuovo romanzo, tra il giallo e lo storico-sovrannaturale, Stelio Montomoli arriva a undici titoli nel giro di dieci anni: roba da stakanovista del computer, ma anche da campione di fantasia e di ricerca sui miti della sua terra, la Maremma degli etruschi. E bisogna ammettere che i suoi libri (ne abbiamo presentati buona parte su questa rubrica) sono tutti coinvolgenti, sia quando si rifanno all’epica minore dei tombaroli piombinesi (che Stelio conosce tanto bene da destare qualche malizioso sospetto…) sia quando affronta i temi del giallo classico, con il suo ispettore Tabani si muove nello stesso areale senza mitizzazioni ma con un robusto e popolare buonsenso.
Con “La strega di Baratti” Montomoli racconta, o meglio inventa, una storia d’amore tra Iade e Gradulfo, che si sarebbe svolta nel 1200 tra superstizioni e strani riti, tra influenze religiose deviate e la scoperta (o riscoperta) del magnetismo delle calamite, lo stesso delle prime bussole realizzate (si dice) dai cinesi e importate da noi, dagli amalfitani. Non raccontiamo la trama, perché come nei gialli classici bisogna arrivare alla fine per capire l’arcano e i suoi meccanismi.
[hidepost]Ma possiamo confermare che il libro si legge bene, spazia dall’attualità al misterioso santuario di San Cerbone e ai riti del 1200, si riallaccia all’epoca d’oro dell’Elba tesoro ferreo per gli Etruschi: e specialmente è pieno del ricorrente canto d’amore dell’autore verso la sua terra, anche verso la desolazione degli spazi resi sterili dai detriti delle ex miniere del ferro ma baciati dall’indaco di un mare che nessuno è mai riuscito a contaminare. Bravo Stelio: da ex operaio siderurgico, ex politico militante, ex segretario generale dell’Autorità portuale di Piombino e dell’Elba, il percorso per diventare scrittore vero e capace sa di eccezionale, ma è stato compiuto alla grande. Oggi che è anche presidente di Toremar, ci aspetteremo un dodicesimo titolo, magari sulle triremi degli invasori greci. Comunque, un dodicesimo libro sul mare. E alla via così.
“Tashkent” di Enrico Campanella (Edizioni Erasmo)
Si può fare un bel romanzo, con non rari accenti di poesia, ma con riferimenti storici esatti e circostanziati, ricordando una straordinaria nave da guerra russa costruita a Livorno e una bella barca a vela sua contemporanea? Enrico Campanella c’è riuscito, in 335 pagine che si leggono d’un fiato. E che richiamano le glorie, le speranze, le vicende belliche e anche il declino del cantiere navale livornese dove il “Tashkent” fu costruito, regalandogli tra l’altro la gloria (effimera, ma fece il giro del mondo) del primato mondiale di velocità per una nave da guerra, tra Odessa e Sebastopoli nel 1939 alla media (con mare grosso) di 42 nodi. E in prova davanti a Portofino, senza l’armamento e più leggero, aveva superato i 45! E’ una storia navale, più che d’una nave. Ma una storia in cui si ritrova molta della Livorno d’anteguerra e poi della sciagurata guerra mondiale che ridusse il cantiere e la città a un cumulo di rovine, ma non piegò i giovani la cui vita s’intreccia con quella degli scafi, della bellissima russa Anastasia – non c’è storia di navi e di mare che non sia anche una storia d’amore – e del giovane Attilio.
Non si può scrivere un libro come Tashkent, infine, se non si è profondamente appassionati di navi, di costruzioni navali, di scafi. Ed Enrico Campanella, nato nel 1963 e disegnatore meccanico eccellente, non solo scrive bene, ma ha anche le mani d’oro nei restauri di belle barche. Ha dedicato anni di studi al cantiere navale Garfagnoli, che per decenni ha rappresentato quell’eccellenza artigiana che in campo automobilistico può essere attribuita alle vecchie Rolls-Royce. E più di recente ha restaurato con incredibile tenacia uno splendido gozzo di legno, il “Doni”, che figura tra le glorie del porticciolo d’Antignano nonché come pezzo raro delle ultime edizioni del villaggio Tuttovela al trofeo Accademia Navale di Livorno. Un artista dunque, non solo con la penna ma anche con il bulino. E specialmente con il cuore.
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