A.P. come S.p.A. una soluzione o più problemi?
Sul dibattito relativo alla “riformina” Lupi riceviamo.
LIVORNO – Su alcune delle proposte sollevate da Vladimiro Mannocci, nella Gazzetta del 6 novembre scorso, si potrebbe dissentire e discutere.
[hidepost]Ma egli ha certamente ragioni da vendere quando lamenta il grado eccessivo di dilettantismo e improvvisazione che caratterizza certe proposte di riforma, e rende giustamente scettici circa la reale volontà e la stessa capacità di arrivare a soluzioni concrete e razionali. Manca in realtà una “dottrina” della portualità, che spiega la vaghezza e il corto respiro delle proposte che vengono formulate.
Si prenda ad esempio il caso della proposta di trasformare le Autorità portuali in società per azioni, proposta che non è di ieri e che a volte ritorna, ma senza quel minimo di approfondimento che la renderebbe quanto meno degna di un esame approfondito. La trasformazione delle Autorità portuali in società per azioni risponderebbe certamente a vari problemi: taglierebbe alla radice la disputa, non solo teorica, sulla natura delle Autorità portuali (ente pubblico o ente pubblico economico?); assoggettando le Autorità portuali alla disciplina privatistica delle società contribuirebbe alla loro configurazione come imprese responsabili dei risultati della gestione; permetterebbe di dare una voce istituzionale ai vari enti e forze sociali interessati alla vita e allo sviluppo dei porti; rendendo queste forze responsabili dei costi delle Autorità in forma societaria agirebbe da freno contro la loro proliferazione irresponsabile; avvicinerebbe la situazione italiana a quella dei più importanti porti comunitari, e via dicendo.
Però, per dare un minimo di concretezza a questa interessante proposta bisognerebbe al tempo stesso individuare la soluzione da dare a molti altri problemi. Come inquadrare il nuovo schema normativo nell’assetto costituzionale che vede i porti e i grandi sistemi di navigazione assegnati alla competenza concorrente di stato e regione? Come rendere compatibile il regime demaniale dei porti con l’esistenza di soggetti imprenditoriali che devono necessariamente operare con un elevato grado di autonomia? Come assicurare che l’autonomia gestionale dei porti rispetti le linee di una programmazione nazionale che per il momento manca quasi del tutto? Siamo certi che tutti i porti italiani debbano essere configurati nello stesso modo? Sarebbe possibile individuare un certo numero di porti da privatizzare, riservando ad altri il ruolo di porti di interesse nazionale e uno statuto conseguente? Un nuovo ruolo imprenditoriale delle Autorità portuali sarebbe compatibile con l’attuale separazione fra le funzioni di sviluppo del territorio e quelle di gestione dei traffici? Infine, sarebbe possibile una riforma del genere senza una chiara politica circa i criteri da seguire nel finanziamento delle opere portuali, distinguendo quelle che devono o possono beneficiare di aiuti pubblici da quelle che devono essere poste a carico dei privati che le usano?
L’elenco potrebbe continuare. Queste poche note si propongono soltanto di raccogliere l’invito di Mannocci a uscire dalla fase di generiche dichiarazioni di intenzioni per imboccare finalmente la strada di una seria riforma della portualità italiana.
Giovanni Vezzoso
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