Perché il futuro dei porti guarda alle grandi navi
Tutti i maggiori players del trasporto dei containers puntano sul gigantismo navale per ridurre i costi – E i porti italiani più dinamici si adeguano al trend
LONDRA – Un tempo ci avevano provato, con il gigantismo, le navi cisterna: colossi immensi, più grandi di una portaerei della seconda guerra mondiale, per i quali erano stati creati i terminals petroliferi offshore e che dovevano aggirare i continenti meridionali avendo preclusi sia Suez che Panama. Sono quasi spariti, sia per la loro intrinseca fragilità, sia per i rischi ambientali connessi (e manifestatisi in alcune delle più note catastrofi del mare).
Altri tempi, quelli di oggi, ed altre problematiche. Perché si torna a parlare di gigantismo navale, nel caso specifico per le fullcontainers dell’ultima generazione.
[hidepost]Basta guardare gli elenchi degli ordini ai cantieri navali specializzati per capire che le navi da 20 mila teu non sono più un miraggio e che quelle da 8 o 10 mila teu rischiano di essere a breve declassate come maxi-feeder o poco più. Semplificazione, è ovvio: ma a fronte di certi studi presentati di recente dai cantieri coreani Daewoo e Hyundai (ai quali si aggiungeranno presto anche i cinesi, che stanno pendendo la rincorsa) c’è da credere che anche le 20 mila teu potranno essere in un futuro non lontano superate.
Tutto questo pone problemi di non poco conto nei paesi, come l’Italia, dove buona parte dei porti storici ha strutture di banchina, fondali e portata delle gru fermi alle navi del passato. E la politica dell’Europa marittima non aiuta certo, visto che non esiste una programmazione reale dello sviluppo delle infrastrutture, sui dragaggi ogni paese va per conto proprio e gli interventi economici continuano ad andare a pioggia, secondo la pressione delle lobbies più che del mercato.
In Italia è anche peggio, perché – ed è solo un esempio – da vent’anni non si riesce a riformare una legge della portualità che sotto molti aspetti era già nata vecchia. Tanto che gli unici scali dove si sta lavorando per il futuro, qualche volta anche contrastati dalla burocrazia statale e locale, sono quelli dove insistono grandi gruppi privati che hanno avuto e continuano ad avere il coraggio di investire: è il caso di Gioia Tauro, di La Spezia e di Cagliari, in parte di Trieste e di Genova, con l’esempio del tutto atipico di Civitavecchia, dove si è parlato non a vanvera di “miracolo”. Casi tutto sommato isolati nel panorama nazionale: casi dove si lavora per fondali oltre i 18 metri, per gru portainers in grado di lavorare su oltre 20 file, di infrastrutture di terra capaci di evitare gli effetti-imbuto ben noti alla logistica del nostro paese.
Eppure è ormai chiaro, e non solo agli istituti di ricerca avanzata, che il futuro dei porti che aspirano ad essere grandi è rappresentato dalla possibilità di accogliere le grandi fullcontainers: che a loro volta sono il futuro delle rotte intercontinentali proprio perché garantiscono economie di scala, calcolabili sui costi degli equipaggi, i costi del fuel (e oggi si ipotizzano già navi che hanno alimentazione mista con il gas liquefatto) e sugli stessi costi di costruzione. E sono entrambi un futuro molto più vicino di quanto non si creda.
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