Mediterraneo, ponte o mercato?

Gian Enzo Duci
Gian Enzo Duci, presidente Assagenti, 38 anni, già vice presidente Assagenti e consigliere di Ecasba, l’associazione europea degli agenti marittimi, è professore a contratto presso la facoltà di Economia di Genova, nell’ambito del corso di laurea in “Economia delle aziende marittime, della logistica e dei trasporti”, e titolare del corso “Implicazioni economico finanziarie delle scelte armatoriali”. Amministratore delegato di ESA Group, società leader in Italia nel settore dello shipmanagement, è stato successivamente presidente dei gruppi giovani dell’associazione genovese, italiana ed europea degli agenti marittimi e dei broker. Durante lo scorso biennio ha guidato le commissioni formazione e manning di Assagenti e la commissione manning di Federagenti.
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NAPOLI – “Uniti nella diversità”, il titolo della XIII Convention nazionale Propeller Clubs, che si è tenuta a Napoli il 24 maggio scorso, mi rimanda al Breviario Mediterraneo, un saggio di Predrag Matvejevic in cui si sintetizza come sia limitativo considerare il Mediterraneo solo dal punto di vista eurocentrico, e come allo stesso tempo sia difficile considerarlo da un punto di vista panellenico, panarabo o pansionistico. Il Mediterraneo è l’insieme di molte cose e, se da un lato è corretto evidenziarne somiglianze e divergenze, è anche utile mettere in risalto la mancanza di una vera e propria organizzazione economica e politica dentro i suoi confini.
Per comprendere a fondo questo concetto, bisogna inserire il Mediterraneo nel contesto economico mondiale degli ultimi vent’anni, che dalla caduta del muro di Berlino alla crisi globale del 2008, ha attraversato diverse fasi intermedie: il periodo di più grande crescita economica della storia, la liberalizzazione economica, la delocalizzazione produttiva, l’affermazione della finanza e la sua centralità per i Paesi sviluppati (in particolare per Stati Uniti e Regno Unito), l’affermazione di Cina e Asia quali Paesi di produzione di beni e finanziatori del debito degli Stati Uniti e, infine, la perdita del potere di acquisto dei redditi della classe media occidentale e il sostegno della domanda con il debito.
I segnali per un nuovo assetto economico mondiale oggi individuano alcune soluzioni alla crisi globale, tra cui si elencano: il ritorno alla centralità di produzione e del lavoro rispetto alla finanza, la progressiva perdita del ruolo del dollaro quale valuta per gli scambi internazionali, la focalizzazione della Cina verso il proprio mercato interno, l’affermazione del multilateralismo, il superamento dello scontro di civiltà, l’affermazione della green economy e la tendenza verso la regionalizzazione dei mercati. In merito a quest’ultimo punto è opportuno sottolineare come nel 2012 sono state di più le aziende tedesche, che sono tornate a produrre in Europa, rispetto a quelle che sono andate a produrre fuori. Inoltre, ci troviamo di fronte all’affermazioni di mercati più prossimi, come il Messico per esempio, che sta diventando sempre di più il centro dove le aziende americane delocalizzano, riportando vicino le produzioni che prima erano state spostate in Asia.
Guardato nell’ottica di un paio di anni fa, in questo quadro, il Mediterraneo sembrava rispondere meglio di altre aree al nuovo scenario mondiale e per le sue caratteristiche si riteneva potesse avere potenzialità di crescita e sviluppo impensabili nel contesto precedente. La primavera araba ha certamente rallentato questo processo, che però era già arrivato a uno stadio abbastanza avanzato con il processo di Barcellona del 27 novembre 1995 e soprattutto con l’Unione del Mediterraneo del 13 luglio 2008, a cui a tutt’oggi partecipano 43 Paesi appartenenti alla costa Sud del Mediterraneo e all’Unione Europea. Quest’area geografica, con i suoi 800 milioni abitanti, potenzialmente potrebbe portare alla costituzione della più grande free trade area del mondo.
L’Unione del Mediterraneo si era data sei progetti prioritari: il disinquinamento del Mediterraneo, il consolidamento delle autostrade terrestri e marittime, le iniziative di protezione civile per prevenire disastri ambientali, un piano energetico di energia solare, l’istituzione di una Università Mediterranea e lo sviluppo delle piccole medie aziende. Temi fondamentali che, oltre al limite di essere eccessivamente vasti, venivano interpretati come scelte imposte dall’alto, da necessità di tipo governativo piuttosto che della base.
Questa visione è stata superata durante l’Assemblea dei parlamenti del Mediterraneo dello scorso aprile, in cui i Paesi aderenti all’Unione del Mediterraneo hanno voluto concentrarsi sull’istituzione di un’area euro-mediterranea nei campi della formazione professionale, dell’istruzione superiore, della scienza e della ricerca e sull’affermazione del valore della dignità umana, dei diritti fondamentali e della parità di genere.
In conclusione, la possibilità di formare una macroregione economica, che possa affrontare con pari forza l’Asia e l’America, esiste. L’Europa difficilmente potrà ambire a questo ruolo per un problema di invecchiamento della popolazione, mentre l’Unione del Mediterraneo ha tutte le potenzialità per esserlo. Perché diventi tale è necessario che ci sia un cambio di approccio che deve necessariamente partire dalle necessità e dalle esigenze delle popolazioni e non provenire dall’alto.
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