Il new deal della festa ch’è finita
COLLESALVETTI – Può anche darsi che il “new deal” dell’Interporto Vespucci di Guasticce, così come l’hanno presentato Federico Barbera e i suoi, sia da ascrivere al reparto delle speranze. Come scrive qui a fianco Cinzia Garofoli, le speranze davvero non mancano.
[hidepost]Volendo fare gli scettici blu, bisogna anche ricordarci però che di speranze era lastricata anche la strada di Marco Susini: e i tempi in cui si poteva abbondantemente attingere al generoso brumeggio dello Stato finanziatore di tutto, compresi gli assurdi.
Barbera non ce ne vorrà se gli ricorderemo come nacque l’Interporto Vespucci: una specie di “compensazione” per il fallimento di un’altra strampalata iniziativa dello Stato, la CMF di Guasticce, che aveva buttato alle ortiche milioni e milioni di lire per le tipiche non-scelte di sottogoverno. Per l’interporto i soldi non si sono buttati alle ortiche, ma peggio: nella palude. Il Vespucci è nato infatti in un pantano, e le spese per renderne stabili e drenate le aree sono state tra le più alte in assoluto nella tipologia degli interporti. La bonifica pontina, in rapporto, è costata meno. Il risultato: quando si è provato a monetizzare il costo delle aree, da affittare o vendere alle imprese, si è scoperto che costano grossomodo quanto quelle edificabili di Porto Cervo dei tempi d’oro. Un disastro.
Per di più, l’interporto non è solo nato sul fango: come interporto è nato anche troppo vicino al porto, mentre come retroporto è troppo lontano. Detta brutalmente: è uno dei tanti (troppi: e lo sa bene il presidente dell’unione di queste strutture) interporti inutili e costosi, nati per motivi di sottogoverno e a lungo alimentati con il sottogoverno. Il coraggio di cancellarlo al momento giusto avrebbe risparmiato agli italiani valanghe di spese improduttive e l’imbarazzo di che farne. Invece si è continuato a giocare sui suoi gloriosi destini: con Susini che è stato bravo a farsi assegnare ancora risorse centrali; e con le istituzioni locali che si sono persino trastullate con progetti da libro dei sogni, vedi la navigabilità dello Scolmatore e il “porto” interno, peraltro già relegati a boutade.
Federico Barbera, che è un pragmatico, non ignora tutti questi precedenti. Ed è per questo che la sua rivoluzione, il suo “new deal”, parte da un assioma: quello di fare del Vespucci un’area di insediamenti industriali o almeno imprenditoriali dove siano i privati a completare – o almeno a correggere parzialmente – quello che le valanghe di soldi pubblici non sono state capaci di fare, rendere il Vespucci autosufficiente. L’ingresso di soci privati, che portino non solo capitali ma anche e specialmente lavorazioni, sembra la strada giusta: per qualcuno addirittura l’unica strada. Ci stanno provando: con i nostri auguri di farcela, perché per i soldi pubblici la festa è finita da tanto. E vogliamo dirlo? Era ora.
Antonio Fulvi
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