Quel bidone della caccia ai bidoni
LIVORNO – Francamente, secca un po’ ripetersi. Specie quando ci tocca ripetere l’ovvio. Ma mi consentirete – lo spero – di tornare sul tema della baillamme scatenata in particolare dalle istituzioni territoriali sui famosi bidoni caduti in mare.
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Intendiamoci: sono il primo a non vedere il mare, il nostro mare ma più in generale ogni mare, come pattumiera. Ma per mestiere ormai antico, so bene che in fondo al Tirreno (e limitiamoci a questo, per il momento) c’è di tutto e di più. E non saranno certo i duecento bidoni di solventi perduti da “Eurocargo Venezia” ad avvelenare un bacino che nasconde ben altri veleni sui quali nessuno ha mai trovato da ridire: dai fanghi rossi di Scarlino alle morchie dei dragaggi del porto industriale (tanto per parlare di cose note), dai relitti di navi affondate con carichi altrettanto inquinanti (compreso il traghetto che si rovesciò davanti a Gorgona, e che i sub ancora oggi vanno ad esplorare con il suo carico di camion, auto, bidoni, anche qui!) o mortali (come i siluri, le mine eccetera che ogni tanto i pescherecci incocciano).
Mi direte: se il mare è pieno di troiai, non è giusto lasciarci anche i bidoni perduti a dicembre. Ragionamento giusto, almeno in teoria. Ma mi consentirete di chiedermi, sulla base delle leggi dell’economia, se il gioco vale la candela: ovvero se le spese che si stanno affrontando per la ricerca dei bidoni – e che si dovranno affrontare per l’eventuale recupero – sono commisurate o meno alla loro reale pericolosità.
Come certo saprete, la società che aveva spedito i bidoni per lo smaltimento sostiene che non sono inquinanti per l’ambiente. Tesi magari interessata, anzi interessatissima. Ma non sarebbe stato meglio, prima di caricare la società armatrice di un costosissimo tentativo di recupero, stabilire davvero – con analisi serie, approfondite e neutrali – quanto siano pericolosi o quanto sia innocui i suddetti bidoni? Non risulta che l’argomento sia stato approfondito. Risulta invece che si sia partiti con ingiunzioni e minacce, con tutta la sollevazione un po’ fuori tema di sindaci e politicanti, cavalcando la facile emozione del “dagli all’untore”. Per di più, con la coscienza pulita (?) per il fatto che non si spendono soldi pubblici ma privati: che paghi l’armatore, l’assicurazione o chiunque altro.
Posso dirlo? Non mi piace. Non perché difendo l’armatore – che peraltro ha tutta la mia solidarietà, in tempi così difficili per chi fa impresa in Italia – ma perché tutta la vicenda mi sembra ammantata di demagogia, di semplicioneria e di quel pseudo-ambientalismo da bar che già tanto male ha fatto al Paese.
E scusatemi se sbaglio. Sono pronto, in questo caso, a risponderne.
Antonio Fulvi
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