Pensabene: com’erano i portuali

Remo Pensabene firma uno dei suoi volumi.
LIVORNO – Si chiacchierava così, l’altra sera nel salone del Lem, alla presentazione del libro di Remo Pensabene “Sono un portuale!”. In attesa del via agli interventi, qualche giovane chiedeva quanto pesava, “ai suoi tempi”, una coffa di carbone; quella che si vede in una delle tante fotografie vintage riportate nel volume. E’ stato risposto che andava sui 50 chili, ma per chi lavorava a cottimo – e ce n’erano, il libro è tutto un ricordare la disperata miseria che spingeva la gente a sfiancarsi – poteva pesare anche di più, e tutta su una spalla sola. Breve parentesi: da giovanissimo, quando cominciò a lavorare in stiva, Italo Piccini lo chiamavano proprio così, “Carbone”, perché la sua coffa era sempre “più”.
Di Italo Piccini, del figlio Roberto, ma in generale dei “politici” che hanno fatto la Compagnia Portuali di Livorno, ma spesso secondo lui l’hanno anche gestita con disinvoltura e con grande e qualche volta eccessiva corte di ruffiani, Remo Pensabene esprime giudizi sfaccettati.
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S’inchina alle capacità manageriali, ma si capisce bene che certe successioni non gli sono piaciute. Del resto, anche Remo i suoi critici dentro la Compagnia ce l’ha: sulla locandina che presentava il frontespizio del suo libro, dove troneggia l’orgogliosa riaffermazione “Sono un portuale!” qualcuno l’altra sera aveva vergato a penna un lapidario “Bugiardo”. Perché Remo Pensabene – anzi, tutti i Pensabene, portuali da tre generazioni – sono sempre stati bastian contrari contro il potere: antifascisti certificati quando c’era il Fascio, critici a faccia aperta con l’occupazione americana, duri nelle assemblee a “Montecitorio” del Palazzo contro la cricca al potere della Compagnia; e durissimo anche nel libro – Pensabene non sa fingere – con quei sindacalisti che difendevano il potere e poi si sono trovati ricompensati “con le presidenze delle Autorità Portuali di Civitavecchia e Livorno”. Trasparente e caustico.
Nel libro c’è poi anche tutta la parte più genuinamente godibile dell’Amarcord, ovvero del ritratto di una Livorno plebea e portuale dove l’orgoglio del mestiere si sommava alla permanente necessità di portare quotidianamente a casa pane, vino e se possibile anche companatico. Su questa parte appaiono assai godibili e come sempre centrate le illustrazioni di Capras (Stefano Caprina), affettuose caricature di un portuale che fu. E che oggi non esiste più; come non esiste più quello storico attaccamento alla Compagnia-mamma che è stato per decenni quasi un Mantra “degli uomini che fecero l’impresa”.
A.F.
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