Requiem aeternam: porti in mano alla politica
Da Pino Lucchesi, già parlamentare Dc per la Toscana, e presidente del Cenis, riceviamo:
ROMA – Con buona pace di quanti ancora sperano in un cambiamento, anche la presente legislatura repubblicana non appare destinata a dare concrete risposte alle esigenze di potenziamento e di razionalizzazione che impediscono di fatto ulteriori passi avanti per la Portualità Nazionale.
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Tra pulsioni di buona volontà, veti, gelosie ministeriali e…crisi economica si è venuto determinando un intreccio di nodi gordiani tale da far dubitare anche Alessandro Magno. Del resto gli unici a brandire lo spadone sono i leghisti ai quali dei porti Italiani non importa un fico secco. Gli altri balbettano qualcosa, partecipano ad inutili convegni essendo privi di qualsiasi capacità decisionale, e tirano avanti sino alla prossima puntata, confidando nello Stellone o in qualche intervento miracoloso (almeno in questo il Porto di Livorno è in pole position per via della Madonna di Montenero che, in quanto patrona della Toscana, allunga le sue benedizioni anche su Piombino e Marina di Carrara).
Sotto una diversa visuale il tema è stato affrontato dal vice direttore del quotidiano Libero, Franco Bechis che fa discendere l’attuale stasi dall’eccessiva e pervasiva occupazione della politica, e dai costi di strutture immaginate snelle e spesso divenute iperburocratiche (vedi i grandi litigi non solo sui presidenti, ma sui segretari generali, i vice segretari e via calando), pachidermiche e ripetitive di antichi vizi.
Non ho molto da eccepire rispetto all’analisi dell’amico Franco, se non tre piccole notazioni: c’è una invasione della politica del tutto evidente, della peggiore politica, ma anche una totale mancanza della Politica con la P maiuscola che esalti il ruolo strategico della Portualità Nazionale; e che, riforma o non riforma, imponga vocazioni differenziate ai vari Porti i quali, invece, volendo fare tutto ed il contrario di tutto, si azzuffano come i capponi di Renzo per spolpare un osso sempre più consumato, dando vita ad una concorrenza interna degna di miglior causa, mai ad un tentativo serio di cooperazione.
Era del tutto chiara, nell’ormai lontano ‘94, la volontà del legislatore di “aprire” i porti alla privata imprenditoria (i cosiddetti Terminalisti, ma non solo), ma anche di dar vita ad organismi snelli di programmazione e di coordinamento, affidandoli, sull’esempio dei più importanti scali internazionali, a manager di primario livello adatti a navigare nei mari sempre più tempestosi della globalizzazione e delle economie emergenti. E’ stata una terribile miopia non aver seguito questa indicazione favorendo piccoli calcoli di bottega, indicazioni e dictat dei Partiti, piccole convenienze da strapaese.
Dal quadretto sinottico riportato su Libero emerge una realtà spesso camuffata o negata. Quella che la portualità Italiana, salvo qualche modesta eccezione, peraltro incentrata su porti di scarsa rilevanza se non secondari, è ancora territorio di caccia quasi esclusivo della sinistra nelle sue varie accezioni, a partire dalla presidenza di Assoporti, all’intero sistema dei Porti toscano, a Genova, Venezia, eccetera: quasi ci sia una incapacità strutturale o una precisa volontà dell’attuale maggioranza di stare lontano da questa patata bollente.
Certo – mi si dirà – c’è il problema dell’intesa con le Regioni. Ma è di tutta evidenza che non mancano fenomeni di trasformismo o di mimetismo che contraddicono le vecchie regole cui eravamo abituati. Ma forse anche questo è un segno dei tempi…
Pino Lucchesi
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