Se il privato non predilige il martirio…
ROMA – Com’era prevedibile, per le grandi opere da cantierare nel prossimo triennio, secondo l’allegato infrastrutture del Dpf depositato in questi giorni in Parlamento, non ci sono soldi sufficienti. Anzi, il ministro Matteoli c’è andato giù duro: a fronte dei 64,8 miliardi di euro necessari, non si arriva a una disponibilità reale di 19 miliardi.
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Possiamo metterci tranquillamente a piangere? Come sempre più spesso accade in politica nel nostro Paese, le certezze non ci sono e ci si tiene aperta una scappatoia. Nella fattispecie il ministro sostiene che dalle esigenze programmatiche quantificate in 64,8 miliardi “non scaturiscono automaticamente impegni finanziari tutti a carico dello Stato”. Il che, nella traduzione in italiano più comprensibile, vorrebbe dire che si conta in cospicue integrazioni da parte dei privati. E si fanno anche esempi “di dottrina”, o se preferite a livello statistico: il coinvolgimento dei capitali privati nelle grandi opere infrastrutturali è passato dal 5% degli anni ottanta al 25% nel primo biennio del 2000. Nel prossimo futuro lo Stato ipotizza “realisticamente” che i capitali privati possano diventare la maggioranza nel finanziamento delle grandi opere, facendo calare gli oneri dello Stato al 30% o anche meno.
Una postilla: lo stesso ministro Matteoli, nel fare queste considerazioni, sottolinea che per incentivare l’intervento dei privati là dove il pubblico non arriverà più, bisogna “avere il coraggio di affrontare la miriade di negatività presenti nelle attuali normative”. Insomma: concessioni demaniali (specie per i porti), pedaggi (per autostrade e ponti) e rimborsi sotto altre voci devono essere remunerativi per chi investe, senza le cento forche caudine attuali: che sono nate per controllare la liceità degli interventi, ma alla fine non consentono – se non a chi ha la vocazione al martirio – di intervenire con i propri capitali nelle opere pubbliche di cui il Paese ha tanto bisogno.
A.F.
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